Scende la curva dei contagi e salgono i decessi. Scendo le scale per lasciare l’organico davanti al portone e salgono i vicini spaventati. Esco per fare la spesa e sto in fila, davanti all’ingresso, in attesa del mio turno, a un carrello di distanza dal bestione biondo con mantello, guanti e mascherina da supereroe.
Aspetto, mi annoio, mi assento e non so perché mi viene in mente Marco Pantani che scattava in salita per rendere più breve l’agonia. Vorrei imitarlo. Marco, l’erede di Fausto, che come Fausto è andato via troppo presto e senza ragione.
Si avvicina il mio turno e penso a un preside che ieri ha riunito i docenti in una sorta di collegio digitale surreale, poi li ha congedati augurandogli di superare l’emergenza in salute e senza lutti familiari. E non è affatto strano. I funerali sono spariti, insieme alle condoglianze a chi non può neanche piangere davanti alle bare aperte.
Qui in Lombardia, dove il Covid ha trovato nella pianura un terreno fertile per espandersi ovunque come una mafia, ci si parla addosso indossando metri di distanza e accessori di Carnevale. Nel mio paese minuscolo di trenta contagiati e morti intorno, le sirene delle ambulanze sono la colonna sonora di un dramma neorealista senza bianco e nero, sospese soltanto dal minuto di silenzio e dai “tricolori dal balcone per ricordare i nostri cari”, come consigliato dal sindaco.
L’immagine del Papa gregario, che invece di mollare la presa, tira in salita la nostra solitudine, mi fa pensare al Medioevo o a certe montagne tremende e silenziose del dopoguerra, quando le vittorie di Coppi diventavano romanzo, mentre quelle di Merckx – lo diceva lui stesso – erano solo cronaca.
Un uomo solo al comando ci ricorda che nessuno si salva da solo.
Le parole sudamericane di Bergoglio insistono sull’uguaglianza, un concetto talmente dimenticato da entusiasmare persino chi non va a messa la domenica o non ha mai preso parte a uno sciopero.
Ora corro verso casa, mi guardo intorno, ho il fiato corto, fatico. Vedo l’arrivo. Il postino si incazza, distribuisce buste e pacchi sotto la pioggia, incrocia il mio sguardo e mi chiede perché debba correre rischi così, senza indicazioni precise.
Sempre in salita, dice. “In questi giorni non c’è mai un momento di pace“.
Vorrei aiutarlo, passargli un goccio d’acqua o una boraccia, ma spunta una volante della polizia, rallenta davanti ai miei occhiali appannati dalla mascherina e mi fa capire che sto per diventare un pericolo pubblico. Che ci faccio lì, sulla strada, accanto al postino? Faccio per andarmene e se ne va pure lei. Lentamente. Come una ammiraglia.
Salire le scale con buste e pacchi d’acqua naturale è come fare Tourmalet e Cima Coppi in un’unica tappa, ma con le gambe di un velocista. Servirebbero le sue di gambe, quelle del grande Fausto, per scalare questa vetta senza ossigeno.
Sì, proprio lui che fu sconfitto solo da un errore medico: si pensava a una semplice influenza e invece era malaria. Aria cattiva. Aria d’altri tempi e un po’ anche di questi. Quando arrivo al traguardo, butto tutto a terra, lascio bici e scarpe sul pianerottolo e mi accontento, ancora una volta, di non essere arrivato fuori tempo massimo. Uscire di casa è diventato faticoso e non sono più allenato, ma in compenso neanche oggi mi squalificheranno.