Una parte spiega il tutto? Se ha senso la sineddoche nel giornalismo, guardando Cosenza bisogna dirsi che cresce l’Italia che odia. Verrebbe da dire “conzativicci”, pensando invece al miracoloso spicchio della città che continua a rimpoverire spazi con un progetto di solidarietà sociale da studiare, ma farlo risulterebbe un dialettalismo poco consolatorio. C’è molto di più dietro l’oclocrazia digitale dell’odio ai tempi di Facebook, questo è quello dell’oggi che è importante indagare. Basta fare una ricerca sugli archivi digitali dei quotidiani più importanti: parliamo della città calabrese che fu tra gli altri dei bruzi, nell’immaginario collettivo la città dell’Oasi Francescana, delle Invasioni, del Forum sociale europeo. Una città aperta, che si lascia invadere culturalmente e fisicamente da tutte le culture, che ribalta gli stereotipi e fa della solidarietà un sistema vincente anche in termini di servizi ai cittadini. (Quasi) tutto questo sembra essere spazzato via dall’ultimo decennio. Arresti, veleni, sgomberi, senzatetto morti bruciati ad un passo dal salotto buono della città. Infine, ma non per ultimo, il maledetto villaggio rom lungo il fiume Crati. Andato a fuoco tre volte in cinque anni, sempre per cause accidentali favorite dalla assenza di qualsiasi sicurezza. Polemiche che si rinviano ad ogni tornata elettorale, così come le soluzioni.
L’APARTHEID DEL DUEMILANOVE All’indomani dell’ultimo rogo, il Comune di Cosenza ha riunito le proprie commissioni con all’ordine l’ennesima “emergenza rom” ma, se di emergenza si può parlare, è bene chiedersi da dove arriva. In uno dei rapporti migliori stilati in questo paese sulla questione Rom, la città di Cosenza è presa in analisi come quella di uno dei campi informali più grandi della penisola. La pubblicazione si chiama FIGLI DEI CAMPI (leggila QUI), e analizza la condizione dei minori rom nelle diverse realtà territoriali che compongono l’intricato puzzle della presenza rom in Italia (nove regioni). Per quanto concerne Cosenza, la prima cosa messa in evidenza nel rapporto è l’anagrafe coatta su base etnica del primo ottobre 2009, realizzata dalla Prefettura cittadina in palese spregio delle prescrizioni europee sui diritti dell’uomo. Come non si ricorderà, quella vicenda si concluse con la notifica di 90 ordini di allontanamento dal territorio nazionale rientrata un mese dopo per decisione della Magistratura Ordinaria del Tribunale di Cosenza, che in buona sostanza stabilì che cercare migliori condizioni di vita non è reato, checché ne dica la Bossi – Fini.
IL CAMPO ROM DI COSENZA Secondo i dati del rapporto, il primo insediamento di 300 rom rumeni in località Vagliolise risale al 2005. I rom per anni occupano una struttura abbandonata e danno vita ad una bidonville in condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza fin da subito precarie, per anni nella totale non curanza delle istituzioni locali. Il “campo” rimane collocato sulla riva sinistra del fiume Crati e insiste su una zona ad alto rischio idrogeologico, praticamente priva di alberi e arbusti in grado di arginare le ricorrenti esondazioni. Si compone di almeno tre sottoinsediamenti attigui, che si snodano lungo la sponda del fiume per circa 1 km. Le baracche sono autocostruite con materiale di risulta, messo insieme per formare ambienti con una superficie di massimo 10/12 metri quadrati. In questi ambienti ristretti vivono famiglie che spesso contano oltre quattro componenti. La vicinanza delle baracche spiega il perché dei frequenti incendi. Gli ultimi dati ufficiali del rapporto fanno riferimento alla data 1° marzo 2013 e ci dicono che la comunità rom presente nell’insediamento informale e nel centro di accoglienza si compone di 620 unità. Nell’unico insediamento informale di Vagliolise vivono circa 570 persone, mentre 50 rom abitano nel centro di accoglienza presso il Palazzetto dello Sport in condizioni che il rapporto, tramite una serie di interviste, ricostruisce come disumane. Tirando le somme infine, visto che la città di Cosenza ha una popolazione di circa 70mila abitanti, le comunità rom in emergenza abitativa rappresentano lo 0,89% della popolazione cosentina.
LA CITTA’ CHE ODIA Eppure la cosiddetta emergenza, anche in termini di sicurezza sociale, viene percepita come se riguardasse una fetta di cittadinanza molto più ampia, fenomeno che sotto queste dimensioni riguarda tutta l’Italia e solo l’Italia. Dopo ogni incendio al campo rom ad esempio, il dibattito in Rete è letteralmente dominato da posizioni oltranziste che fanno riemergere oscure epoche del passato. Non si tratta solo di un fenomeno tipico dei media sociali. Secondo i dati citati da questo e altri rapporti il marchio sui rom è presente in tutta Europa, ma solo il Italia raggiunge picchi spaventosi, effetto non solo di ignoranza diffusa o di razzismo, ma anche di assenza decennale di politiche adeguate, che hanno costretto alla ghettizzazione, e quindi anche al crescente grado di degrado e illegalità, decine di migliaia di persone solo in base ad un’appartenenza culturale. Il trasversale rifiuto della presenza rom a Cosenza, in particolare, viene individuato nella popolazione e nella classe dirigente con lo stessa veemenza di argomentazioni. Basta visitare i post sulla vicenda di alcuni rappresentanti istituzionali, con annessi commenti, per rendersi conto di quanto i numeri siano in linea con la realtà. Chi scrive è persino testimone (insieme ad altri colleghi) delle virulente panzane di alcuni consiglieri comunali dopo l’assise che doveva tenersi il pomeriggio dell’incendio al campo rom. Si riportavano, in evidente preda alla concitazione degli eventi, persino racconti agghiaccianti di presunti ritrovamenti di feti abbandonati da parte degli agenti, dimostrazione di aborti clandestini fatti nel villaggio. Allo stato alcun dato investigativo successivo all’incendio fa ritenere questi fatti verosimili ma, qualora mai lo fossero, siamo disponibili a documentarli con i nostri mezzi. Giusto il tempo di ritirare prima il vestito in tintoria per il Premio Pulitzer e capire perché mai pubblici ufficiali non abbiano ritenuto di rendere pubbliche tali scoperte.
IL TEMPO DEI GITANI Nulla di nuovo, la maggior parte degli italiani non saprebbe indicare un mafioso o un corrotto nel suo quartiere, ma ha una amica di una cugina che ha un amico che gli ha raccontato dal parrucchiere di un cugino che ha visto una zingara nascondere sotto la gonna un bambino sottratto alla madre al supermercato. In conclusione, va da sé che il tutto spiega una parte. L’etnia rom in Italia compare per la prima volta in racconti del 1400; mezzo secolo dopo i cittadini di questa etnia (status culturale, che giuridicamente non significa niente) nel nostro paese sono circa 180mila. Di questi quasi la metà sono cittadini italiani e una enorme maggioranza sono cittadini comunitari. Quelli che vivono nei campi in Italia sono solo 40mila su 180mila. L’Italia come Cosenza, percepisce come un problema alla propria sicurezza non le mafie, ma una etnia culturale (giuridicamente lo stato di rom non significa nulla) che rappresenta una piccolissima parte della propria popolazione. I dati confutano molti falsi miti, dimostrando, ripetiamo, che si tratta in buona parte di cittadini italiani a tutti gli effetti, in gran parte di cittadini comunitari, e in grandissima parte di una comunità stanziale. Dati ufficiali (leggi QUI) dicono che in Spagna vivono quasi un milione di rom, in Romania più di due milioni, in tutta Europa se ne contano fino a 12 milioni, e all’ 85 – 90% si tratta di appartenenti a una comunità dallo stile di vita sedentario che non vuole vivere nelle baracche lungo i fiumi o nelle roulotte dei campi attrezzati.
UNA QUESTIONE POLITICA Ma allora perché si continua a parlare di emergenza nomadi se è palesemente una vicenda che dura da innumerevoli anni ed è riferita ad una comunità stanziale? Una speculazione politica. Quella rom è la minoranza culturale più grande d’Europa ma non è rappresentata a nessun livello istituzionale: questo è il primo problema. Candidata al parlamento europeo nell’ultima tornata c’è stata un’attivista milanese di origine rom di nome Dijana Pavlovic. Attrice in tv e in teatro, mediatrice culturale e attivista per i diritti umani è nata in Serbia nel 1976, laureata all’Accademia di Belgrado e dal 1999 vive a Milano con il suo compagno e un figlio di 4 anni. In una intervista ha spiegato una delle falle del sistema: “Vi siete mai chiesti perché tutti parlano a nome dei Rom e nessuno chiede loro cosa ne pensano, per esempio, con quali politiche si potrebbe migliorare la loro condizione e di conseguenza anche di quella di chi è infastidito da loro? Come mai la questione Rom è diventata quasi un’industria? Pensate che solo a Roma ci sono 500 persone che lavorano con un contratto per la questione Rom e nessuna di loro è Rom”.
Ecco, abbandonando per un attimo la visione romantica dell’oppresso e le centinaia di anni di oppressione di questo popolo, dietro cui molti attori sociali a sinistra finiscono per nascondere le proprie responsabilità, si può cercare di capire seriamente, in base ai dati, perché a livello nazionale si sia voluto creare e mantenere a tutti i costi in piedi questo gigantesco capro espiatorio chiamato rom.
NB. Questo servizio è stato scritto e pubblicato prima degli scandali di “Mafia Capitale”, ai cui intollerabili eventi di corruzione simbolo di un intero Paese, è dedicato.