
Brasilia. Poliziotti a cavallo marciano verso gli indios piumati, ma non si tratta del Carnevale. Tracce di fumo dei lacrimogeni volano incontro alle sassaiole e alle frecce colorate davanti allo stadio della Coppa del Mondo. Un’immagine virale, che agli occhi del Pianeta intero rischia di diventare la foto simbolo dei campionati di calcio che il Brasile attende da mezzo secolo. Gli indigeni in marcia rappresentano solo una parte dei cortei sociali di protesta attivi in tutte le piazze del Paese ormai da quasi due anni, ci sono anche studenti e professori, operai e missionari; le scene di guerriglia davanti allo Stadio intitolato a Garrincha – campione dei poveri ai tempi di Pelè, soprannominato “Allegria del popolo” – ci arrivano come nuove ma allo stesso tempo hanno radici antichissime.
Per meglio addentrarsi nella lunga e tempestosa onda di democratizzazione brasiliana bisogna tornare ad un’altra foto fuori da uno stadio, di circa un anno fa. Italia contro Spagna, Coppa delle Confederazioni, una prova generale del Mondiale e delle proteste. Nella città di Fortaleza, durante la partita l’accesso allo stadio è stato vietato dalle forze dell’ordine ai moltissimi manifestanti in strada per protestare contro la corruzione pubblica e i tagli alla spesa sociale. Lacrimogeni e cariche di contenimento si rincorrono in modo di disperdere i cortei prima che arrivino nel quartiere dello stadio. Tutti indietreggiano, tranne un panciuto signore con una maglietta gialla. Avanza a passi lenti e intona una canzone patriottica. Si avvicina ad un palmo dagli agenti in tenuta antisommossa e inizia a parlargli. L’immagine viene immortalata da un reporter e diviene foto d’apertura sulla Prima del New York Times, il quotidiano più influente del mondo, 900mila copie vendute ogni giorno. Quell’uomo si chiama Sílvio Mota, 68 anni, giudice in pensione ma, soprattutto, oppositore della dittatura militare che ha guidato il Brasile per un ventennio dopo il colpo di stato del 1964.

Erano agli anni dei Gorillas: il giudice Mota militava nell’Azione di Liberazione Nazionale (ALN) guidata da Carlos Marighella, un poeta rivoluzionario anarchico figlio di emigrati italiani. Marighella venne eliminato dalla polizia in un agguato una mattina del 1969, Mota invece andò a Cuba a studiare prima di vivere da esule in Francia e Portogallo. Quando è tornato in Brasile per riprendere una vita da cittadino esemplare, il governo gli ha riconosciuto un indennizzo per le persecuzioni politiche subite. Oggi è in pensione e ha ripreso a lottare con le associazioni di memoria. Alla stampa statunitense ha spiegato la sua opinione, sostenendo come sia giunto il momento di riprendere l’impegno del passato e di terminare la transizione democratica iniziata trent’anni fa: «In Brasile abbiamo bisogno di memoria, equità e giustizia. E bisogna anche eliminare gli ultimi pezzi dei tremendi anni della dittatura, come la polizia militare».
Chi pensa abbia ragione da vendere ha altre immagini a cui appigliarsi, sono le più tremende, arrivano dalle favelas. Due morti controverse, quelle del muratore Amarildo Dias de Souza e del ballerino Douglas Rafael da Silva, due ragazzi di favela la cui esecuzione è addebitata alla polizia militare brasiliana. Il primo è scomparso il 14 luglio del 2013 da Rocinha, una settimana prima dell’arrivo di Papa Francesco; ad un anno dal fatto si celebra il processo contro 25 imputati con accuse che pendono sulla polizia militare per i crimini di tortura con conseguente morte, occultamento di cadavere, frode processuale, omissione impropria e cospirazione. La favela Pavão – Pavaozinho, non distante dalle spiagge di Copacabana, è invece lo scenario della morte del ballerino, avvenuta per mano degli agenti dell’unità di pacificazione durante una retata anti-narcos il 23 aprile scorso. La morte del ragazzo, una celebrità locale, ha dato vita ad una rivolta violentissima nel popolosissimo suburbio andata avanti per giorni e notti, fino ai funerali.

Scene inquietanti, che rimandano l’evoluto paese che ospiterà la Coppa del Mondo e le Olimpiadi agli anni che hanno preceduto il golpe capace di innestare nel millenario dna carioca la tolleranza per crimini di stato contro ogni dissidente, nelle incontrollabili periferie delle città come nelle sconfinate battaglie indio dell’Amazzonia. Lo sa bene Dilma Roussef, la presidentissima ex guerrigliera che si gioca tutto nelle urne il prossimo ottobre. Ha cercato di chiudere la partita della pacificazione su quegli anni prima che fosse troppo tardi, ma amnistie e scandali hanno affossato i tentativi delle Commissioni parlamentari per la verità e ora gli strascichi della dittatura continuano a manifestarsi nei numerosi scandali di corruzione politica che la investono fino a metterla in pericolo d’impeachment.
Un macigno su quello che si preannuncia come l’evento più militarizzato costoso e controverso di sempre.
*Estratto numero 1 da “LIBERDADE”, libro-inchiesta in attesa di un editore.