«Etica ed estetica son tutt’uno». E gran parte della storia della cultura del Novecento ce l’ha lasciato in eredità; ma senza scomodare nani o giganti del secolo scorso arriviamo al punto: parliamo un po’ de L’imbarcadero. L’ultimo lavoro curato e realizzato da Davide Imbrogno e Marco Caputo è un gioiellino di estetica. Un messaggio promozionale che ha a che fare, appunto, con il profilo più bello della nostra terra. Non un film, forse anche qualcosa in meno di un cortometraggio: un gioco di luci “scientifico”, studiato, che si propone – quasi in maniera paradossale – di dare risalto allo splendido contesto naturale della Sila. E ci riesce.
Verdi distese incorrotte, tradizioni, lentezza e solitudine. Una breve storia s’intreccia con se stessa e si lascia apprezzare per la “metafora del pacco”, trasportata qua e la per la Sila, piena di paure, antichi rancori e, soprattutto, ricordi. Hugo Race (Mark), musicista di fama internazionale, veste i panni di un protagonista romantico e un po’ cervellotico. Spigoloso, per il suo accento italo-australiano e per i modi con cui si relaziona con le (poche) persone che incontra. L’imbarcadero è il Caronte della nostra Sila. Trasporta sulla sua barchetta il nostro protagonista fino al suo personalissimo inferno, ammonendolo e mettendolo in guardia. Ci sono sempre dei vecchi diavoli pronti ad attendere sulle sponde opposte dei nostri migliori intenti.
«Guai a voi! Guai a voi!» – urla “Caronte”, e ancora – «devi pagare come tutti i mortali!», «la superficie corrotta del fato!» e «l’eterna narrazione!», le più autentiche farneticazioni, impersonate dall’ennesima trasformazione di Giovanni Turco, che per mano accompagnano questo breve viaggio. Un brillante Tony Sperandeo recita la parte del padre di Mark. Un padre esiliato, una personalità che soggiace e si nasconde dietro altri nomi. Un ghostwriter di biografie, incapace di scrivere della propria vicenda, incorniciato all’interno di una fotografia di scena onirica che dura una sola notte. Poi il mattino, un faro, un lago, pioggia mista a raggi di sole, le braccia di Mark che si aprono e sfiorano un senso di libertà tutto nuovo. Pronto a ricominciare da una panchina bordeaux scolorita dal sole, immersa nel verde, davanti ad una striscia grigia di strada, in attesa di un bus che (sorpresa), alla fine, passerà. Ed ecco Alice (interpretata da Annamaria Malipiero), i due si erano piaciuti la “notte prima del sogno”. Due individui, un uomo e una donna di borgesiana memoria che, «ignorandosi, stavano salvando il mondo».
E l’etica? Dopo il bello, dov’è il buono? Quello è tutto fuori dalla scena e appartiene alla famiglia Biafora. Sul parco del cinema Garden di Rende si sono definiti «imprenditori e montanari», sminuendosi fin troppo, così come solo le persone semplici sanno fare. In realtà, l’aver investito in questo messaggio promozionale (d’autore), fa di loro dei magnati. Puntare sulle idee e sulla bellezza in anni di profonda crisi: è questo l’esempio più buono e giusto che si possa dare.
Lo sanno tutti, ma pochi ci credono davvero.