Nera che porta via. Spaesati abbiamo visto il video della Mobile di Genova che con i reparti antisommossa esige i documenti dai ragazzi che spalavano il fango, mentre grazie alle trasmissioni tv abbiamo ripassato che l’infrastruttura capace di evitare l’ennesimo tsunami sulla città di «Dolcenera» è da mesi bloccata dalla burocrazia e sarebbe comunque costata negli anni una infinitesima parte di quella inutile opera che qualche chilometro più a monte ferisce un territorio ormai sfinito.
Fabrizio De Andrè oggi scriverebbe anche della Tav? In realtà l’ha già fatto. L’amore per la moglie di Anselmo, o l’esondazione del fiume Bisagno descritti nella canzone sono solo eventi metaforici che permettono a Faber di parlare del potere accecato, come ha ricordato qualche giorno fa Giuseppe Salvaggiulo per La Stampa. Il grande poeta anarchico lo spiegò direttamente al pubblico del Palasport di Treviglio in uno dei suoi ultimi concerti, era il 24 marzo 1997:
“Questo del protagonista di Dolcenera è un curioso tipo di solitudine. È la solitudine dell’innamorato, soprattutto se non corrisposto. Gli piglia una sorta di sogno paranoico, per cui cancella qualsiasi cosa possa frapporsi fra se stesso e l’oggetto del desiderio. È una storia parallela: da una parte c’è l’alluvione che ha sommerso Genova nel ‘72, dall’altra c’è questo matto innamorato che aspetta una donna. Ed è talmente avventato in questo suo sogno che ne rimuove addirittura l’assenza, perché lei, in effetti, non arriva. Lui è convinto di farci l’amore, ma lei è con l’acqua alla gola. Questo tipo di sogno, purtroppo, è molto simile a quello del tiranno, che cerca di rimuovere ogni ostacolo che si oppone all’esercizio del proprio potere assoluto”.
L’Italia fragile di oggi, al cospetto del dissesto idrogeologico che la impernia, è come una fiammiferaia sotto la tempesta. Un potere profondamente malato negli anni l’ha abbandonata e spogliata persino dell’ombrello, trasformando gli eventi naturali in killer sociali. C’è un uomo che in questi giorni ha usato metafore simili; si chiama Franco Gabrielli ed è a capo della Protezione Civile. Nominato due giorni dopo il pensionamento di Guido Bertolaso e riconfermato da tre governi, prima di questa nomina ha diretto a lungo i servizi segreti ed è poi diventato prefetto dell’Aquila, soli due mesi prima del tremendo terremoto.
Ha detto su Genova alluvionata: “Mi mandano in guerra con due aspirine”.
Locuzione interessante, dopo quella delle “bombe d’acqua”, entrambe utilizzate in un vile gioco delle parti che sta caratterizzando tutte le istituzioni e i partiti. Roba vecchia certo, ma non solo, tenendo conto che mentre Beppe Grillo organizza il passaggio mediatico dei suoi sul palcoscenico dell’alluvione, accusando fra l’altro dal circo massimo la peste rossa del disastro ligure, la Parma amministrata dal M5S del ribelle Pizzarotti annegava in perfetta solitudine. Anche in riva al Baganza ieri se la sono vista brutta; acqua fino alle ginocchia, scuole strade e ponti chiusi, quelli che non sono crollati come ha fatto il Navetta.
Aveva ragione De André: nel paese a forma di Stivale non si salva nessuno dal tumulto del cielo.
In uno scenario che non ha più agenti di mediazione come i furono partiti di massa, le prossime elezioni restano l’unico profitto dell’uomo politico, per questo sono sempre più frequenti. Si deve lavorare per farsi rinominare dai comitati di affari e rieleggere dai cittadini imbambolati. Bisogna raccogliere fra cinque anni, quindi si mettono da parte gli interventi sul medio-lungo periodo. Quelli notoriamente più importanti sono rivolti alle generazioni venture, che per adesso non votano.
Il Meridione questa volta resta a guardare, nella Calabria degli appuntamenti elettorali nella notte cadono ancora le stelle come in estate e, mentre si stringono abbracci mortali, nessuna campagna elettorale si occupa del suo 100% di dissesto idrogeologico.
Mmasciata.it nel suo piccolo cercherà di cambiare il corso, affiancando a “L’AVVELENATA” – rubrica che in questi mesi ha posto l’accento sui disastri ambientali – “DOLCENERA”, che cercherà di porre l’accento sui territori più fragili, prima che dal cielo arrivi la sfortuna nera. Quella, si sa, ha la sua tana dove non c’è la luna.
Amìala ch’â l’arìa amìa cum’â l’è cum’â l’è…
(Trad. Guardala che arriva guarda com’è com’è…)