Era un dieci di novembre, quando ammazzarono Ken Saro Wiwa. Successe il 1995, anche se pare un fatto riaffiorato da un tempo remoto. Un poeta impiccato dal regime militare alla fine di un processo beffa, dimenticato dai suoi connazionali nel giorno della vittoria più attesa della grande nazionale Nigeriana. Era uno dei più grandi intellettuali e attivisti che l’Africa abbia mai dato alla sua splendente luce e non va dimenticato.
In Italia sono servite le orazioni di Roberto Saviano (qui), c’è voluta la canzone “A sangue freddo” del Teatro degli Orrori, per ricordarsi di ricordare una storia così. Non è durata molto. Ripensare all’insegnamento di un eroe pop riuscito a guidare a suon di sit-com, poesie e racconti un popolo di orgogliosi disperati come quello degli Ogoni, come nessun altro somiglianti ai giganti blu del film “Avatar”, è doveroso. Sono passati più di vent’anni da quando questa etnìa che abita il ricco delta del fiume Niger apparve agli occhi degli osservatori internazionale in tutta la sua fierezza; protestava pacificamente contro le multinazionali del petrolio, bramose delle risorse di quella terra. Erano in 300mila, e alla loro guida c’era proprio Ken Saro che, amatissimo, sosteneva la causa con queste mirabili parole:
“…tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito”.
Ma a zittirlo provarono lo stesso.
Quattro arresti , la dura prigionia e l’accusa di essere il mandante morale di un omicidio politico, nonostante in tutto il mondo ormai conoscessero l’istinto non violento della sua protesta. Tutto il mondo ma non la Shell, la compagnia petrolifera olandese che denunciava in quel periodo l’impennarsi di intimidazioni e di violenze da parte dei resistenti contro i propri tecnici che operavano in Ogoniland. La multinazionale dell’oro nero del resto non aveva provato imbarazzi ad assumere una posizione pilatesca nella vicenda di Wiwa, sostenendo il diritto dovere a non interferire nella giustizia di un paese sovrano, nonostante gli inviti di segno contrario portati avanti da autorità influenti come Bill Clinton e Nelson Mandela.
“Non interferire“.
Peccato, perché molte decine di testimoni invece si ricordano di militari scesi dai mezzi delle compagnie petrolifere prima di mettere a ferro e fuoco i villaggi. E’ tutto riportato in una serie di report fatti dalle organizzazioni umanitarie. Che fanno gridare giustizia ancora oggi. Perché non bastano 15 milioni e mezzo di dollari a “riconciliare” tutto questo. A tanto ammonta la cifra che la Shell ha patteggiato di versare nel processo intentatole nel 1996 da Jenny Green, avvocato del Center for Constitutional Rights di New York. Una briciola rispetto alle cifre in gioco in quel pezzo di mamma Africa, bazzecole persino rispetto al danno d’immagine che si sarebbe creato con un’eventuale dimostrazione del coinvolgimento della compagnia nell’esecuzione di Wiwa. Quell’uomo coraggioso non temeva né la morte né la prigionia, diceva che le sbarre al nostro mondo sono fatte di cordardia e menzogne. E lo terrorizzava il pericolo che di quella loro battaglia non rimanesse traccia per i posteri. Temeva le bugie di un affarismo sfrenato, l’oblio imposto dallo scellerato sfruttamento di paesi ricchi e industrializzati come l’Italia, che oggi non può nascondere le sue responsabilità, visti gli interessi industriali delle sue compagnie di bandiera in quella zona.
L’energia che è in questa stanza, il carburante che la riscalda, gronda come sangue nero da questa storia e forma una macchia indelebile nel profondo delle nostre coscienze. Macchia che il Peace Research Institute (Sipri) ha mostrato a tutti, attestando che il nostro Paese, l’Italia, è stato il primo esportatore d’armi in Nigeria dal 1988 al 1992. Armi dall’Italia alla Nigeria per 143 milioni di dollari, sono tanti soldi, e sono solo quelli ufficiali. Per restituirli agli Ogoni scampati a quelle pallottole dobbiamo guardare questa ingiustizia che gocciola nelle nostre vite, informarci su queste vicende, condividerle e trarne un insegnamento vivo. Perché tutto questo significa che c’è un’alta percentuale di probabilità che il proiettile che ha sfondato il cranio di uno dei tanti oppositori giustiziati in quegli anni abbia reso possibile un pezzo del benessere che mi fa sedere davanti a questo computer. Che fa sedere te che leggi davanti al tuo.
Bisogna parlare del poeta Ken Saro Wiwa, dei giornalisti e sindacalisti torturati ed uccisi insieme a lui. Di una stagione che ha visto annientata in pochissimo tempo la libertà di espressione, il diritto ad una vita dignitosa. Quelle negazioni hanno prodotto l’odierna guerra civile. Quindi leggere i libri di quest’uomo, “Sozaboy” oppure “Un Mese e un giorno” significa oggi dar nuova vita al potere delle sue parole, combattere ovunque nel mondo dalla parte giusta una guerra culturale per l’ambiente e la propria terra, senza paura della sconfitta.
I sozaboy, bambini soldato, intanto girano armati davanti le chiese cantando una canzone dal ritmo allegro, ma dalle parole agghiaccianti:
Padre mio non preoccuparti
Madre mia non preoccuparti
se morirò sul campo di battaglia
non preoccuparti, ci incontreremo ancora.