VIAGGIO A CUBA DOVE RINASCE IL NATALE, di Enzo Biagi*
L’AVANA – Credo che per molti italiani Cuba voglia dire “la atmosfera voluptuosa en cui flota Tropicana“: che è un “cabaret”, con tante prosperose ragazze che, al ritmo delle musiche dei Caraibi, esibiscono rotonde bellezze. Di una famosa attrice di Hollywood, Jane Russell, che esponeva un seno prosperoso, qualcuno disse: “Ha l’avvenire davanti a se“, queste bellone dalla pelle abbronzata lo hanno anche dietro. Ognuno ha in mente la sua isola: il primo connazionale che arrivò da queste parti fu il navigatore Cristoforo Colombo; scese a terra, e piantò una croce. Alle altre, dopo provvidero i colonialisti. Colombo ha avuto un largo seguito: siamo al primo posto nella classifica del turismo locale.

C’è, tra i viaggiatori, chi pensa a Fidel Castro, pacatamente definito il lider maximo, e alla sua leggenda: è il capo del partito comunista, che è poi il solo ammesso. Le sue massime invadono le strade; tutte le dittature abbondano in striscioni e in slogan propagandistici sui muri. Fa discorsi che durano anche qualche ora, e quando è arrivato aveva di sicuro qualcosa da dire. Ha combattuto, e ha vinto, l’analfabetismo, le strade in certe ore sono invase da lindi scolaretti, con la divisa color senape, il fazzoletto rosso al collo, come i “pionieri” di Mosca, molte malattie sono scomparse: c’è la povertà ma anche l’uguaglianza. è l’ultimo Paese del “socialismo reale”: ma siccome c’è un’aria che ricorda Napoli, tutti si arrangiano. Anche Fidel si è aperto alla storia: con la caduta del muro di Berlino, le macerie hanno sepolto l’ideologia, e non arrivano più, oltre a soldi e macchine in cambio di zucchero, aiuti e direttive dal Cremlino. Fidel Castro ha ricevuto con tutti gli onori il Papa, nella speranza che interceda col Cielo e, penso, con la Casa Bianca. Ha convenuto che il Natale non rappresenta soltanto il passato e ha deciso di riammetterlo nel calendario, perché ha capito che é più facile cancellarlo dall’elenco delle feste che dal cuore della gente. C’era una volta un nobile signore che diceva a un proletario: “Senza quell’incidente che fu la rivoluzione francese non ci saremmo mai parlati“. Senza la nascita del figlio di un carpentiere e di una casalinga avvenuta, più o meno, duemila anni fa, il mondo sarebbe ancora più ingiusto. Gesù predicò: “Gli ultimi saranno i primi“; non è sempre vero, ma è già importante arrivare in gruppo. Per questo gli ingenui socialisti di una volta lo consideravano un vecchio compagno. I marxisti – leninisti avevano proclamato che la religione è l’oppio dei popoli; ma poi si è visto che non vivono meglio senza.

A Cuba, prima della rivoluzione, c’erano quasi 800 chiese, 109 sono state occupate dalle autorità, per usi che non hanno nulla a che vedere con Dio. L’ateismo non è più ufficiale, si considerano laici, ma ogni anno si registrano 75mila battesimi, mentre scarseggiano i matrimoni davanti all’altare: ci si separa alla svelta, e senza troppe formalità. Celebrano la messa 147 sacerdoti e nei conventi pregano 500 suore; decine di missionari stranieri aspettano un visto. Il permesso di soggiorno, in ogni caso, dura dodici mesi: se non viene rinnovato, fuori. Ma qui si pratica molto la “santeria”: oltre al culto dei virtuosi cristiani, delle figure sacre, c’è anche quello dei demoni. Chiedono la grazie a Maria Vergine, Nuestra Senora de la Caridad del Cobre, e alla Dea Oshun, che non ha niente a che vedere con la castità, ma che è anzi l’emblema dell’erotismo, con particolare riguardo alla sessualità femminile. Ha un’aria vispa e allegra di una bella mulatta, e le sue attenzioni vanno in particolare alle partorienti.
Sono andato a trovare Don Giulio Battistella: dovrebbe occuparsi di 85 mila parrocchiani. è veronese, ed è prete da quasi quarant’anni. è un missionario: conosce bene l’America Latina, ha predicato anche nelle favelas, ai miserabili. Penso a Bernanos che ha raccontato la solitudine del sacerdote: don Giulio vive in una piccola, fragile casa, e mi dice: “Mangio e vivo solo. Mi sono abituato“. Mi fa ricordare un altro sacerdote, Padre Robert De Caluwè; i giovani lo chiamavano Padre Rob. Viveva in Finlandia, a Pekola, ai confini con l’Unione Sovietica, in un villaggio tra i boschi, con un cane che agli ordini faceva anche un salto mortale, e all’ora dei pasti andava a prendersi la scodella da solo, e con un cavallo guercio. Parlava otto lingue e sapeva anche adoperare l’accetta e il piccone. C’erano, attorno, cinque o sei cattolici, li vedeva qualche volta la domenica e la notte di Natale. Suonava la campanella per dire agli abeti, alla civetta che sonnecchiava, ai merli in cerca di bacche, alle ghiandaie dal ciuffetto bianco, che si accingeva a celebrare la gloria del Signore. “Qui – mi racconta Don Giulio – c’è una doppia religiosità. Su cento, uno partecipa alle attività della parrocchia: messa, sacramenti. Poi sessanta si ricordano le date. Ieri, 17 dicembre, San Lazzaro: c’è per lui tanta devozione. Alla Chiesa si chiede il battesimo per i bambini, qualche messa per i defunti, acqua santa, preghiere, santini. Non facciamo pressioni per i matrimoni, visto il grande numero delle separazioni. Da quando sono a Cuba, ne avrò sposati quattro o cinque. Il peccato del sesso è quasi ignorato, ma ci sono anche pochi ladri“. Gli chiedo da che cosa Fidel Castro li ha liberati: “C’era una disuguaglianza molto forte, mentre oggi è una società assai egualitaria. Ultimamente li ha affrancati anche dalla paura di andare in chiesa. Con l’ arrivo del Papa è ritornato il Natale: non era giorno festivo dal 1970. Stiamo facendo il presepe. C’è un fiorellino che simboleggia questo momento: è l’aguinaldo, bianco, lilla, giallo come una piccola campana, un rampicante che invade tutti i cespugli“. Mi congedo: “Buon Natale, Padre“. “Grazie, e che il Signore ci aiuti“.

Tutti i bambini vanno a scuola. Su otto cittadini uno è diplomato, su 15 uno è laureato, ma a causa del deficit alimentare la metà dei piccoli tra i 5 o i 6 mesi soffre di anemia. Più del 76 per cento degli abitanti ha un impiego pubblico, sei o sette sono disoccupati. Un insegnante di educazione fisica guadagna 10 dollari al mese, un medico venti. Una fotografia costa un dollaro. Con un manipolo di barbudos, come chiamavano i rivoluzionari, Fidel Castro, avvocato, ha creato il primo Stato socialista dell’America Latina. Poi c’è la Cuba di Ernest Hemingway: “è il luogo che più amo al mondo dopo la mia patria” diceva. A pochi chilometri dall’Avana c’è la Finca Vigia, la casa, che è diventata un museo. Era il suo rifugio: da qui si scorge la corrente del Golfo, e c’era il mare, e c’erano gli amici: un medico, il marinaio Gregorio Fuentes, il pescatore Anselmo Hernandez. è rimasto solo Gregorio, che ha sulle spalle un secolo di “puttana vita”. A Hemingway piaceva tutto: lo sgabello del Floridita, dove gli servivano il daiquiri ghiacciato, le lotte dei galli, il barocco di Plaza de la Catedral, che forse gli ricordava la Spagna, il ristorante “La terraza”, dove gli preparavano la zuppa di pesce e quei quattro o cinque litri di vino che buttava giù ad ogni pasto. Qui venivano a trovarlo Gary Cooper e Spencer Tracy, qui Mary Welsh, la quarta ed ultima moglie, gli aveva creato il mondo giusto per lavorare: scriveva in piedi, batteva su una vecchia Royal, e gli scodinzolavano attorno quattro cani che sono sepolti con rispettosa lapide nel giardino: Blackir, Negrita, Madrakos e Black Dog, e cinquantasette gatti. Diceva: “Cuba mi ha sempre portato fortuna nello scrivere“.
E’ guardando questo paesaggio che esplode, con gli infiniti tipi di mango o di lucertole, e i piatti della cucina dei Caraibi: il cosciotto di porcellino arrosto, con le banane fritte e il riso, e poi via coi cocktail, e magari coi balli: cha – cha – cha, o la guaracha che si consolava. Aveva imparato anche l’insulto più consueto: “Me cago en la puta madre“. Quaggiù trovava la sua pace e guai se i ragazzacci tiravano sassi agli alberi. Ma aveva un’ossessione: non morire nel letto, non soffrire, non fare soffrire. Si rincuorava con casse di whisky, e Julien Green, che andò a trovarlo, visto il traffico, commentò: “Ora capisco per chi suona la campana“. Diceva: “Bisogna prendere le bottiglie per il collo e le donne per la vita“. Ma pensava alla fine; e la simulava davanti agli amici: “Guardate come farò“. Lo fece. Il 15 maggio 1960 incontrò Fidel Castro; e penso che parlarono di guerra, gli piaceva manovrare i fucili forse, ha detto uno psichiatra, perché nella caccia e nelle corride trovava uno sfogo alla sua impotenza. Ballò una notte con Marlene Dietrich, ma non ci fu un seguito. Tutto è rimasto come quando Mister Papa era qui: le palme sono cresciute ed il ficus ha le bacche rosse, nella stanza dove pranzava pendono alle pareti le teste tristi di un impala e di un cervo, c’è il manifesto di una “Grandiosa feria”, una corrida con Dominguin e Ortega, 28 agosto 1933, c’è un tavolo gremito di liquori, e la poltrona su cui riposava, con ricamata una scritta voluta dalla seconda sposa: “Poor old papa”, povero vecchio.
Qui venne anche, con un fratello, il suo ultimo amore: Adriana Ivancich, veneziana. La conobbe nel 1947 quando gli era ormai difficile scrivere, si sentiva stanco, e qualcuno pensava: “Non ha più niente da dire”, ma lei come dice Hotchner, il biografo, “rappresentava nella sua esistenza qualcosa di speciale“. Adriana aveva diciotto anni e lui cinquanta ed era “bella come un buon cavallo o un proiettile lanciato“, paragone un po’ ardito ma certo insolito. Pioveva, lei era ferma su una strada di fango, dalle parti di Latisana, e aveva bisogno di un pettine. Hemingway cercò nel giubbone di cuoio, ne trovò uno d’ osso, lo spezzò e gliene diede metà. Adriana amava leggere, dipingere, ascoltare, cominciava appena a vivere. “Aveva – scrive Hemingway – una pelle pallida, quasi olivastra, un profilo che avrebbe fatto battere il cuore a chiunque, e i capelli bruni di fibra vivace le cadevano sulle spalle“. Così nasce il volto di Renata, la protagonista di Di là dal fiume e tra gli alberi, e si sviluppa la vicenda del vecchio colonnello Richard Cantwell che va verso la morte, ma che incontrando la romantica e nobile fanciulla vive “il suo ultimo, il suo vero, il suo unico amore”.

Quando ho conosciuto Adriana Ivancich era la moglie di un uomo di affari tedesco, era madre di un bambino e ne aspettava un altro. Stava in una villa sulla collina, vicino a Varese, nella brughiera. Fuori era buio, una luce calma illuminava i ritratti degli antenati, le porcellane di Bassano, gli argenti, e la signora mi parlava di quello scrittore famoso e solo che le diceva: “Mi hai dato un soffio di vita, scriverò ancora un romanzo, il più bello“. “Sembrava – raccontò – ancora più vecchio, era forte, grosso, ma la barba era chiazzata di bianco; sulla faccia si vedevano i segni delle esperienze. Io ero appena una ragazzina e non capivo il suo dramma. Parlavamo di cose che ora non ricordo, chi sa quante sciocchezze dicevo. Lui mi chiamava in tanti modi, daughter, figlia, o partner, socia. Avevamo fondato il Club della Torre Bianca. Membri onorari erano anche Ingrid Bergman, Ava Gardner e la Dietrich. Gli piacevano le persone attraenti e coraggiose, diceva che erano tre grandi donne. Mi chiamava anche Black Horse, Cavallo Nero. Fisicamente, certo, Renata sono io. “Mi parlava anche della morte, ricordo, ma per riderci sopra, senza presentimenti, senza timori. Posso dirlo: era uno che aveva bisogno di aiuto, mi cercava, era anche buono, dolce, e desiderava farmi felice. “Mary, la moglie, capiva l’interesse che Papa provava per me, ma capiva anche che il mio non era amore, ma tenerezza, devozione, scoperta di un mondo. Allora io non sapevo cosa c’era nel suo cuore, nel suo destino, cosa significava l’incontro di una ragazzina e di uno scrittore alla ricerca dell’ispirazione perduta, in una Venezia autunnale, rarefatta, quasi disperata. Gli sono passata accanto senza conoscerlo. Mi ha scritto in cinque anni una settantina di lettere. Saranno pubblicate fra tanto tempo; allora nessuno di noi ci sarà più e varranno solo come pagine letterarie. Non era amore il nostro. Era come una foglia che ha trovato il ramo, una pianta che chiede rugiada. “Un giorno Papa mi chiese di accompagnarlo verso la spiaggia, alla piccola baia di Cojimar. “Devi solo guardare l’oceano assieme a me” mi disse. Forse è stato il momento più intenso della nostra amicizia: quel cielo, le grida dei gabbiani, il fragore delle onde, i pescatori che tiravano su le reti, lui taceva, aveva gli occhi pieni di lacrime. Allora sentii la sua grande tristezza“.
Lo hanno sepolto a Ketchum, Idaho, una fossa e una lapide con un nome, e sul fondo c’è un piccolo monte, pieno di arbusti e di felci. “E adesso – dice un suo personaggio, un vecchio colonnello – andiamo oltre il fiume, e andiamo a riposare tra gli alberi“. Più tardi Adriana lo ha seguito. è rimasta soltanto qualche sua poesia. L’ultima dice: “A questo grande amore / posso offrire soltanto il dono del mio cuore“.
*Corriere della Sera del 24 dicembre 1998