La Calabria è ingiusta. Non è un discorso semplicistico, ne disfattista. Seppure ai suoi confini, ci si dimentica spesso che questa è regione dell’Occidente più pacifico e relativamente prospero della storia contemporanea e, seppur innegabile povertà e disoccupazione avanzano verso livelli serissimi, nulla è paragonabile alle miserie che questa terra ha conosciuto nei secoli passati, niente è vicino alla condizione di inguaribile arretratezza che l’ha caratterizzata per migliaia di anni.
Per farla breve, qualcosa oggi in Calabria si muove, anche di molto interessante, solo che sbatte contro qualcos’altro e ritorna al punto di partenza. Una situazione di caotico movimento che fa avvertire il tutto come fermo. Del resto, basta cambiare un piccolo dettaglio del percorso per fare deragliare il convoglio intero. Un’analisi che potremmo cercare di muovere a molti campi dell’agire quotidiano in questa terra, ma che alla luce delle vicende che hanno riguardato il caso Marlane e Bergamini in questi giorni riteniamo sia importante iniziare a fare sul ruolo della Giustizia.
Non si tratta di abbandonarsi a istinti manettari, ma nemmeno di nascondersi dietro paraventi garantisti. Indubbio che l’innocente è tale fino al terzo grado di giudizio, ed è sempre, sempre, meglio un colpevole per strada che un innocente dietro le sbarre, ma alle garanzie delle vittime – quantomeno quella di sapere la verità – chi pensa più? Le indagini e i processi, di responsabilità dello Stato, sono stati spesso e in modo equivocabile viziati da falle, dolose e meno, che hanno allontanato la verità. Nessuno mai pagherà per questo. È anche una responsabilità dei media. Processi simili, persino minori rispetto al numero delle vittime, in altre zone del Paese (vedi Ethernit o Thyssen nel caso Marlane) sono stati al centro di un ciclone mediatico che l’ha portati a rapida conclusione, mentre in Calabria i faldoni lasciati ad ammuffire si sono ingrassati di un silenzio complice e inguaribile che non ha riguardato solo pochi coraggiosi cronisti isolati, un silenzio che nei decenni ha lasciato ingigantire un insopportabile senso di impunità e di sfiducia nelle istituzioni.
La Giustizia è qualcosa di più importante della legge. La prima appartiene all’umanità, la seconda solo agli uomini. La legge può anche rappresentare la conservazione, mentre la Giustizia, anche quando ristabilisce un ordine delle cose precedente, è sempre motore di cambiamento. In Calabria insomma non è sempre un problema di legge, ma è spesso un problema di giustizia. Riducendo un senso filosofico e sociale più ampio del termine alla sola amministrazione della Legge dello Stato in terra di Calabria, non è difficile evidenziare il bubbone. Il problema dei Tribunali chiusi o accorpati: enorme. I guai delle Procure nei rapporti con il potere politico: incredibili. A Cosenza i politici più potenti, nemmeno tanto velatamente, rinfacciano a se stessi la capacità di condizionare le inchieste della magistratura. A Catanzaro per la famosa “guerra fra procure” ha rischiato di cadere un governo. A Reggio non sapremmo da dove partire.
E se spostiamo il punto di osservazione sulla gente comune? Ritardi e pastrocchi strozzano il lavoro degli eroici onesti nei palazzi di Giustizia mentre uccidono i diritti dei cittadini. Non solo ’ndrangheta. L’ottimo giornalista reggino Giuseppe Baldessarro su Repubblica (leggi qui) ha contato che solo nel 10 per cento di circa trecento omicidi avvenuti in Calabria negli ultimi cinquant’anni si conosce un colpevole accertato. Nove su dieci, una statistica allucinante, figlia di molti padri.
In questo clima la paura e l’omertà sono oggi alla stregua di diritti di sopravvivenza, e lenta cresce l’annessione di un territorio da parte di una minoranza di prepotenti, padroni e criminali ai quali tutto pare concesso.