Salvatore L. è un vecchio. È prossimo ai novant’anni quando, nel luglio del 1891, viene scaricato da ignoti, senza cura alcuna davanti all’Ospedale civile di Cosenza. Otto anni più tardi, Giuseppe M., vecchio mendicante di Celico, cieco da ambo gli occhi, si trova nella più totale infermità, vive per strada e si arrabatta per come può. Per entrambi la meta finale sarà la prigione degli inutili di colle Pancrazio, per ordine del Prefetto di Cosenza verranno internati nel ricovero di mendicità “Umberto I”. Lì conosceranno l’inferno.
Una “immensa mendicità” avvolgeva tra ‘800 e ‘900 la città di Cosenza. Torme di disadattati e derelitti bussavano alle porte dell’Ospedale civile, provenienti da quelle angustiate periferie senza pane e senza pace, per dirla con Pasquino Crupi, dove i sindaci avevano il loro bel da fare per sgomberare le strade dall’avvilente piaga della mendicità. Celico, Pietrafitta, Mangone, Rogliano, Santo Stefano di Rogliano, Figline, Piane Crati e Cellara erano i paesi maggiormente rappresentati tra le corsie e nelle camerate dell’Umberto I. Qui, tra interdizioni, ordini e divieti, si giocava a sopravvivere rincorrendo quelle misure premiali – una sigaretta, una boccata d’aria nel cortile o gli sporadici doni dei benefattori – elencate in un regolamento interno in cui la figura del direttore, che percepiva puntualmente non meno della quinta parte dell’intero bilancio annuale della struttura, svettava sovrana.
NUOVA VITA Appena entrati si veniva spogliati degli stracci della vita precedente e preparati a quelle “misurazioni uniche che si credono eseguire, prima che si vestano gli abiti della sala” e venga assegnata la camerata corrispondente. I ciechi stavano con gli storpi. Gli uni e gli altri separati da chi, seppur menomato, era comunque in grado di produrre reddito. Se l’inabilità al lavoro era la prima, vera, causa di internamento, lì dentro si lavorava eccome. Il regolamento interno, ancora una volta, non dà adito a dubbi: “I ricoverati devono esercitare in quei lavori per cui sono abili, chi si rifiuta verrà punito”. Nella prigione degli inutili, sulla collina dell’imperfezione, si intrecciava la paglia, si fabbricavano vimini che, periodicamente, venivano spediti all’Esposizione nazionale di Palermo. Una vera e propria passerella che serviva, sostanzialmente, ad accrescere il gradimento del direttore e degli amministratori presso i ministri del Re. Per queste e altre vie, accumulando consensi e potere, si costruivano carriere. Mentre nella prigione si lavorava per una paga, definita mercede. Due terzi di questa venivano immediatamente incamerati nelle casse dell’ente morale mentre la terza, pari alla cifra di 30 lire, veniva assorbita dall’amministrazione dello stabilimento a “guarantiggia”, una sorta di trattenuta preventiva per proteggersi da eventuali danni volontari che ogni lavorante avrebbe potuto cagionare alla struttura e all’intero sistema produttivo. Solo in pochi, alla fine e a discrezione del Direttore, vedranno i frutti del proprio lavoro. In molti conosceranno punizioni esemplari: “servigi di fatica, obbligo del silenzio, privazione del pane e della minestra, proibizione della sortita, del fumo o del parlatoio”. C’era poi la temuta camera della disciplina, una stanza angusta e umida dotata soltanto di lettino e pagliericcio: qui i pazienti venivano chiusi, di norma, per non più di 8 giorni salvo eccezioni autorizzate da personale medico.
UN PASTO OGNI DUE GIORNI Nel 1912 il ricovero ospitava ancora 80 pazienti mantenuti in economia fino alla seconda metà degli anni Venti quando, diminuito e poi progressivamente venuto meno il sussidio approvato annualmente dall’amministrazione provinciale, che dell’Umberto I esprimeva il consiglio di amministrazione, vedeva ridursi la popolazione di ospitati a 46 unità che consumavano un pasto completo ogni due giorni. Si trattava quasi sempre di un pugno di pasta o riso con fagioli o minestra d’erbaggi, arricchita da 60 grammi di pane ordinario di farina separato dalla crusca. Frequenti dovevano essere le lagnanze dei ricoverati, sistematiche al punto di essere regolamentate in un apposito articolo: “I ricoverati possono parlare ai membri del consiglio di amministrazione facendone domanda al Direttore. Essi potranno rispondere a tutte le domande loro dirette dai membri dei Comitati visitatari dello stabilimento ed esporre le proprie lagnanze. Le domande collettive dei ricoverati sia a voce che per iscritto sono riservate e possono essere oggetto di punizione”.
Gli atti storici conservato all’Archivio di Stato di Cosenza raccontano che, tra vertenze degli impiegati in rotta con l’amministrazione provinciale che non approvava la pianta organica degli impiegati, sussidi e donazioni in inesorabile declino, lavori di sistemazione mai ultimati dalle amministrazioni comunali, nel secondo dopoguerra il ricovero si dibatteva in brutte acque, tanto da passare dai 54 ricoverati del 1935 ai 34 del 1978. Il primo secolo di vita della prigione degli inutili si chiudeva però con due importanti passaggi amministrativi, preludio allo scempio dei decenni successivi. Nel 1976 il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, firmava l’importante “decreto 616” che trasferiva alle regioni tutta la materia all’assistenza agli anziani e infermi. Ma con due leggi apposite (n. 18 del 1981 e n. 5 del 1987) la Regione Calabria passava sostanzialmente “la palla” ai comuni.
Il resto è vergogna recente. Storia di blitz e avvisi di garanzia, ladri d’arte e stupratori di memoria, sindaci assenti, amministratori distratti e una città che ha preferito dimenticare tutto questo troppo in fretta. Noi ci torneremo.
(fine seconda parte, continua)
Prima parte | Ricovero Umberto I, una storia mostruosa
Terza parte | Ricovero Umberto I, parla l’ex amministratore