Nella battaglia tra tecnologia e giornalismo l’esito appare scontato, ma fino a un certo punto. Device sempre più “mobili”, sempre più connessi con mondo dell’informazione hanno bisogno di community sempre più complesse che, per funzionare al meglio, necessitano di figure apparentemente lontane dal giornalismo, come di strutture tecnologiche che spesso cozzano con il concetto classico dell’informazione.
Più unicorni e meno giornalisti, dicevamo ieri. Tuttavia è un errore pensare che lo scettro dell’informazione sia stato totalmente demandato ai geni dell’informatica. Se l’architettura informatica è ormai un elemento imprescindibile della comunicazione web, come ben spiegato nei dieci step di progettazione di un sito del workshop di Federico Badaloni del Gruppo L’Espresso al Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia (QUI IL VIDEO), non è da dimenticare il ruolo fondamentale che i comunicatori di mestiere hanno in questa partita.
Qual è dunque la formula giusta? C’è davvero una guerra tra tecnologia e giornalismo? In realtà, come è ovvio e saggio che sia, si cerca sempre più spesso di coniugare le due cose, avvalendosi anche di figure capaci di creare le magie digitali. La vera sfida è la partecipazione e la fidelizzazione degli utenti/consumatori di notizie, cosa che sembra abbastanza chiari ai tipi del Washington Post e a Raju Narisetti della News Corp che nel panel “Tech vs Giornalismo: Chi comanda?” hanno ben espresso quanto sia importante creare delle esperienze, avvalendosi dei metodi narrativi, senza rincorrere le chimere della tecnologia. Ed è qui che sta tutto il senso di questa rivoluzione culturale dell’informazione: trasformare le notizie in esperienze. Possibilmente personalizzate per ciascuno di noi. Se il mondo tecnologico sembra una dimensione alienante e individualistica, in realtà gli addetti ai lavori parlano sempre più spesso di percorsi emozionali, d’interattività sempre maggiore tra utente e comunicatore, in una grande piazza quale può essere il web e in particolare i social.
Già, i media sociali. Lo special guest di questa seconda giornata di festival, Andy Mitchell direttore news di Facebook, che ha delineato un quadro affascinante quanto terrificante sulla mutazione del mondo dell’informazione e del modo con cui le persone accedono alle notizie. Secondo i dati presentati (fonte Rapporto Censis sulla comunicazione di marzo 2015), il 71% dei giovani italiani usa Facebook per informarsi. Un numero enorme di persone ogni giorno, in base agli interessi che la piattaforma percepisce, vengono indirizzati verso un tipo di notizie piuttosto che altre, sulla ormai celeberrima “bacheca” che mediamente consultiamo quattordici volte al giorno. Anche qui si parla di esperienze, di storie piuttosto che di articoli. Mitchell spiega quanto il mondo delle news sia diventato importante per Facebook ma rimane vago quando la platea gli rivolge domande sulla censura, sui criteri etici con cui Facebook sceglie determinate notizie da mostrare sulle nostre bacheche, su quanto i governi di zone come il Medio Oriente possano alterare quello che è il vero stato delle cose tramite un controllo dei social network. “Facebook non dovrebbe essere il primo canale d’informazione” cerca di ripiegare sulla difensiva. E qui si assiste al riscatto del giornalismo. Domande a raffica di giornalisti da tutto il mondo, giovani e meno giovani, e occhio puntato su un problema decisivo per il futuro: il lettore sceglierà le notizie che vuole sapere o qualcuno deve anche potergli proporre le notizie che deve sapere?
Forse, alla fine, la battaglia non è ancora persa.
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