Riemerge dalle carte una scomoda verità, mentre suore e pazienti dell’Umberto I di Cosenza vivevano nell’estrema povertà che vi abbiamo raccontato c’era tutto un mondo gravitante attorno la struttura che campava (o campa?) di luce riflessa. Un patrimonio “dormiente” in beni immobili dell’ammontare di centinaia di migliaia di euro. Sono le cifre, approssimative, di uno dei primi sacchi alla sanità calabrese. La mancanza di risorse che aveva portato alla chiusura forzata da parte dei magistrati del ricovero Umberto I di Cosenza nel giugno del 1997 non ha infatti tenuto conto di un tesoretto in appartamenti e terreni la cui estinzione avrebbe consentito, in tempi non sospetti, una ragguardevole iniezione di “sostanza” nelle disastrate casse dell’ente morale.
Vasti appezzamenti di terra nell’agro dell’hinterland cosentino (nella zona di Lappano), appartamenti e magazzini in città figurano in ritagli di giornale, testimonianze e libri fra i beni “dormienti” di pertinenza dell’ex ricovero e della Fondazione che ne era nata. Tracciarne i passaggi è complicato. Ad agosto del 1998 l’ex ricovero, ormai chiuso da circa anno, passa nelle mani dell’Asl cosentina, che lo acquista a titolo gratuito per trent’anni dal consiglio dall’amministrazione provinciale che dell’ente morale Umberto I esprimeva, sin dal 1880, il consiglio di amministrazione. Le finalità del “patto” tra Asl e Provincia, sono contenute in una dichiarazione rilasciata in quei giorni dall’allora presidente pidiessino, Carmine Audia, alla Gazzetta del Sud: “Non ci terrei a passare come l’ultimo presidente dell’Umberto I. Come il becchino di una gloriosa istituzione. L’idea giusta sarebbe riconvertire le finalità e ridare slancio all’ente nel mondo del no profit o in quello culturale, coinvolgendo altri soggetti pubblici come per esempio il Comune di Cosenza”. Una ristrutturazione, l’ennesima, sembrava profilarsi al fine di accogliere un centro di salute mentale. Non se ne fece nulla. Se con la cessione all’Asl l’ente morale aveva cessato di fatto di vivere, rimaneva però ancora in piedi la “Fondazione Umberto I” con un ingente cumulo di beni, finiti non certo chissà dove, ma di certo a chissà chi.
Intanto, mentre politici e amministratori si arrovellavano per questioni essenzialmente burocratiche, l’ex ricovero di colle Pancrazio lasciato incustodito dopo il congedo delle suore, finiva saccheggiato in arredi, suppellettili e ogni altro oggetto che avesse un minimo valore. Si salvarono le tre statue dell’Ecce Homo, di Sant’Antonio e della Madonna del Rosario, realizzati tra XVII e XVIII, portate nei laboratori della Soprintendenza insieme a un piccolo organo a mantice, tutto il resto andò perso, compresi molti documenti probabilmente capaci di dare risposte alle domande più scomode, che a questo punto restano inevase.
In queste settimane sono stati avvistati sopralluoghi di personale comunale sul posto dei nostri fatti, si vocifera di alcuni progetti di recupero del sindaco architetto ma, nonostante richieste ufficiali, non siamo riusciti a ottenere udienza per saperne di più.
Questo era il mostruoso e glorioso passato dell’Umberto I, il futuro è un’altra storia.
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L’ALTRO TESORO Nell’ex struttura dell’Umberto I sono ancora custoditi tesori artistici da recuperare. Una “Ultima Cena” che nonostante forte sia stato il danno provocato dall’abbandono e dal fuoco, si rivela di ottima fattura; un dipinto che si trova alla parete opposta dell’ex refettorio rappresentante il miracolo di S. Francesco che nelle Puglie resuscitò un fanciullo caduto in una caldaia di acqua bollente. Tutt’attorno, sulle pareti, effigi di santi e vescovi dell’ordine dei Cappuccini, antichi abitatori del plesso, prima dell’istituzione del ricovero di mendicità. Che storia quella dei Frati Minori Cappuccini! A Cosenza arrivano nel 1534, inizialmente nell’antica dimora cistercense di Santa Maria della Motta, luogo scelto appositamente dall’ordine che prediligeva i margini delle città. Ma occorre più spazio e aria più salubre, così nel 1652 si trasferiscono nel convento sulla sommità di colle Pancrazio. E’ del 1699 l’introduzione dell’adorazione alla Vergine Addolorata e la costruzione nel convento di un altare in suo onore, mentre nel 1756 Mons. Michele Maria Capece introduce nel convento la benedizione degli Abitini. Il quadrilatero chiostro nella sua “maestosa” povertà tipica dell’Ordine, si presenta ancora oggi con semplici, armoniche arcate e nel 1795 Padre Francesco, guardiano, lo fa impreziosire da affreschi rappresentanti i santi e gli illustri Cappuccini. Oggi, purtroppo, di questi non rimane alcuna traccia, se non nel refettorio. Tutto questo patrimonio di arte e storia è oggi inghiottito dalla vegetazione e da residui di incendi passati, in una struttura a serio rischio di crolli, come quello del 1994 che danneggiò quasi tutti gli altari. La Chiesa era allora adibita a deposito di materiali provenienti del ricovero. Prima di perdere le ultime, importanti, tracce di plurisecolari presenze qualcuno intervenga o, forse, sarà troppo tardi. (Alessandra Carelli)
(parte quinta, fine.)
PARTA QUARTA | Angeli con Mille lire