Volevo vedere da vicino i black bloc. La sfilata del primo maggio a Milano mi sembrava l’occasione. Quando sono arrivato a Piazza XIV Maggio, il tempo per stupirmi della bellissima, nuova Darsena e mi sono tuffato nel corteo che era già partito.
Scovare il Blocco Nero è stato semplice. Si era posizionato indietro nel corteo, avanti allo spezzone rosso dei Cobas che lo chiudeva. Una posizione strategica che gli ha permesso di nascondersi nella pancia del corteo. Anche se questa volta si è visto subito che c’era poco da nascondersi. La massa nera, inquietante, era un blocco massiccio, compatto, combattivo. Quando mi ci sono mescolato, insieme ad altri giornalisti che ci ronzavano intorno come api col miele, ho intuito subito che la tensione era alta. I fotografi e i cameraman sono stati da subito bersagliati, è volato anche qualche ceffone.
Dopo pochi metri in Via Ticinese, la prima svolta nei pressi delle Colonne di San Lorenzo, il primo contatto con un cordone di carabinieri. Sfottò, ma tutto filava liscio. Il Blocco Nero non era ancora pronto. Il segnale passava dai gesti, dagli sguardi, e da due fumogeni accesi in mezzo al corteo. Nel fumo dei quali i Black Bloc afferravano caschi e mazze e si trasformavano da “normali” contestatori a violenti.
Lungo Via De Amicis e Via Carducci, non una vetrina di banche, istituti di credito, agenzie immobiliari, persino di negozi di occhiali, è stata risparmiata. Non una. Mi sono avvicinato a un ragazzone, tutto in nero, e questo mi faceva: “No picture”. Inglese nel quale intuivo delle cadenze tedesche. Li osservavo. Erano organizzati così: due o tre si staccavano dal corteo tirando fuori martelli e corpi contundenti e spaccavano tutto, altri due li scortavano ai lati proteggendoli da telecamere e fotocamere. Un giornalista del Giornale Radio della Rai con cui scambiavo quattro chiacchiere veniva avvicinato da due ragazze. “Che è quella foto? Cancellala”. Se così non fosse stato avrebbero chiamato “i ragazzi”, aggiungevano. Il giornalista cancellava.
La progressione di bombe carte mi annunciava l’arrivo del Blocco in Largo D’Ancona all’incrocio con Corso Magenta. Per chi non è di Milano, è zona Cadorna, pieno centro cittadino. I ragazzi in nero attaccavano subito i due cordoni di poliziotti e carabinieri. Lì vicino c’è il Palazzo delle Stelline, una delle sedi dell’Unione Europea a Milano, uno degli obiettivi della vigilia. Ma non vedo una strategia particolare nel Blocco, solo quella di menare le mani. Era il momento più critico. La piazza diventava un campo di battaglia, il Blocco ne aveva il controllo, la polizia si limitava a contenere. Caricare avrebbe significato esasperare gli animi, con il rischio che le forze dell’ordine, per la particolare conformità della piazza, venissero attaccate sui lati. Venivano lanciati gas urticanti che mi attaccavano gola, occhi, stomaco. Vomitavo per la tosse. Dopo la crisi e dopo esser tornato con altri giornalisti dalle parti di via Magenta (ringrazio una infermiera fra i manifestanti che mi ha allungato dell’acqua con del Maalox), non credevo ai miei occhi. Uno dei centri della movida milanese era uno scenario da post bombardamento. Macchine in fiamme, fumo nero sui palazzi, la filiale della CREDEM distrutta anche all’interno.
Iniziava un tira e molla che ci portava fino a Pagano, quando tutto finiva. All’improvviso. Così com’era iniziato. E finiva come in qualsiasi spettacolo teatrale. Con gli attori, in questo caso i duri in nero, che si spogliavano dei loro abiti e tornano a essere quelli che erano. Ragazzi, spesso ragazzini, che si disperdevano in metro, nei bar, nei circoli. Eccolo il Blocco Nero. Duro, violento. Che ti lascia con mille inquietudini mentre loro tornano a progettare altri assalti.