Nel 1987 a Midland, in Texas, la cronaca della caduta in un pozzo della piccola Jessica McClure di appena diciotto mesi di vita lanciò la Cable News Network come all news di livello internazionale, cambiando irrimediabilmente i media. In realtà fu solo un replay in larga scala e dal diverso finale di quello che accadde in Italia sei anni prima con il piccolo Alfredo Rampi.
Alfredino diventa il titolo di un romanzo popolare con tutti i colori della cronaca, trasmesso per la prima volta in diretta televisiva dal servizio pubblico italiano. I fatti si svolgono a Vermicino, vicino Roma. Il 41enne Ferdinando Rampi sta tornando nella casa dei genitori da una passeggiata prima di cena, è mercoledì 10 giugno del 1981. Insieme a lui due amici e il figlio maggiore di soli sei anni. Lo chiamano tutti Alfredino, a settembre andrà sotto i ferri perché soffre di problemi al cuore. Sono le 19 e 20, il piccolo chiede al genitore di poter fare l’ultimo tratto attraversando i campi, ma quando il dipendente dell’Acea arriva a casa, ben mezzora dopo, suo figlio non è ancora rientrato. Inizia una ricerca spasmodica senza successo: alle 21 e 30 vengono allertate le forze dell’ordine, Alfredino non si trova. La nonna Veja ipotizza fin da subito che possa essere finito in un pozzo lì vicino, ma la costruzione risulta chiusa da alcune lamiere, la decisione degli uomini è quello di non perderci tempo e di cercare oltre. Si deve ad un brigadiere la decisione di ispezionarlo ugualmente. Rimossa la copertura si sente la voce di Alfredino, flebile e spaurita come la nostra coscienza.
Il tunnel è largo 28 centimetri e profondo almeno 80 metri. Si prova maldestramente a calare una tavoletta, ma ad un certo punto qualcosa va storto e il pozzo viene tappato. Grazie ad alcuni tecnici della Rai intorno all’una di notte viene calato nel budello roccioso un’elettrosonda a filo per comunicare con il bambino. I primi appelli sulle tv locali avviano un incredibile rincorrersi di eroismo e approssimazione, fino all’ora di pranzo dell’11 giugno.
Per la prima volta il TG1, diretto da Emilio Fede, inizia una diretta televisiva non da un grande avvenimento di portata storica, ma dai fatti di Vermicino. A seguirlo TG2 e TG3, tutti forse convinti che nel giro di pochissime ore la trivellazione si sarebbe conclusa e l’operazione di salvataggio sarebbe andata a buon fine.
Durò 18 ore invece, con un pubblico stimato di 21 milioni di telespettatori che dimenticarono completamente gli altri fatti del giorno come la crisi di governo, lo scandalo massonico P2 e i rapimenti delle Br. Non si parlava d’altro che di quel bambino, ovunque, tanto che attorno al pozzo si era radunata una folla di circa 10mila persone, con tanto di venditori ambulanti di cibo e bevande.
Una immensa fiera, tutti affacciati a guardare l’Italia nel pozzo.
Con il passare delle ore le trivellazioni risultarono più difficili del previsto, così si perde la testa delle operazioni di soccorso e inizia uno scellerato casting di nani da calare nel tunnel. Il primo è un eroico manovale siciliano alto un metro e mezzo, Isidoro Mirabella. Dalla lunga barba bianca e dallo sguardo stralunato, quell’irsuto folletto 52enne arriva vicino alla meta e riesce a lungo a parlare con Alfredino, senza tuttavia riuscire a raggiungerlo. L’indomani si scopre che il bambino è scivolato molto più in giù della profondità stimata, a circa 30 metri dallo sbocco del nuovo tunnel che intanto stava per essere terminato. Nel pomeriggio, in rigorosa diretta televisiva a reti unificate, arriva il Presidente della Repubblica Sandro Pertini ad affacciarsi sul pozzo e a parlare al bambino. Poi la sera tocca di nuovo ad un bislacco piccoletto, stavolta di origini sarde – Angelo Licheri, facchino in una tipografia romana – tentare di riportare in superficie Alfredino. Riuscirà a prenderlo solo per poco, il polso sinistro del bambino si ruppe e la presa scivolò ben sette volte, mentre l’Italia continuava a seguire col fiato sospeso.
Ci provarono in tanti altri dopo di lui, invano. La morbosità con cui venne seguita la vicenda ostacolò senza ombra di dubbio i soccorsi. Venne anche calata una telecamera che arrivò fino a venti centimetri dal corpo del bambino: il viso di Alfredo sporco di sangue reclinato su una spalla, un braccio sul petto e l’altro ripiegato dietro la schiena. Scene del primo reality del mondo, che si concluse con il pasto del dolore di Franca, una mamma piegata in due in mezzo alla folla, sola in mezzo ai politici che tentano di consolarla.
Per anni il pozzo resiste al suo ruolo di mecca ante-internet del cinismo giornalistico e della morbosa cronaca da talk che oggi è norma, ma che prima di allora non s’era mai vista. La morte entrò nelle case degli italiani, che vi si abitueranno presto. Il luogo è meta di pullman di turisti per anni, poi viene chiuso con un lucchetto e dimenticato. Le polemiche sulle responsabilità sui giornali dureranno il tempo di un’archiviazione in tribunale, i piccoli eroi star televisive negli anniversari, poi muoiono poveri vecchi poveri e soli, dopo aver sognato per decine di anni il volto di quel bambino solo sfiorato e finito in decine fra libri, documentari, canzoni e fiction.
Per una strana legge del contrappasso di un fato cinico e baro, l’altra sera invece nessuno si è accorto della morte di Riccardo Rampi, stroncato da un infarto a 36 anni in una discoteca romana. Quando suo fratello maggiore Alfredo morì in quel pozzo a Vermicino, di anni ne aveva solo due.
Condividevano lo stesso cuore zoppo, sepolto per sempre sotto lo stesso pezzetto di destino.