di Michele Giacomantonio
Chissà se il peso dei mille chiavistelli che ogni giorno li separano dal mondo di fuori sarà meno opprimente per Francesco Carannante e Gennaro Barnoffi, che oggi si sono laureati all’Università dalla Calabria. Usciti per un giorno dai loro ergastoli, scontati già da quasi 25 anni nel carcere di Rossano dove sono entrati quando erano appena ragazzi – non ancora uomini eppure già macchine da guerra e carne da macello per la camorra – hanno portato le loro tesi di laurea fino al luogo che dovrebbe rappresentare uno spazio di massima libertà viaggiando in quella sorta di gabbia con le ruote che sono i veicoli cellulari, scortati con discrezione dai loro guardiani, per una volta senza divisa come richiesto dai docenti della Commissione di laurea.
Un giorno quasi intero di normalità dentro le vite due persone sui cui destini grava la frase più disumana che ci possa essere e che recita spietata “fine pena mai”. Perché gli ergastoli non sono tutti uguali, come spiega Adriana Caruso, che del percorso di studio dei due detenuti è stata una specie di angelo custode. “Nel loro fascicolo c’è il timbro “ostativo”, che significa che non potranno fruire di alcuna agevolazione avendo al momento dell’arresto rifiutato di collaborare”, spiega Adriana. Si tratta di una norma che doveva essere incentivante per i pentiti e provvisoria nella procedura, invece se la sono scordata ed è diventata una trappola per molti. La signora Caruso è un maestra elementare in pensione che su sua richiesta ha seguito il cammino di Carannante e Barnoffi, curando tutte le procedure che erano impossibili per due detenuti, come le iscrizioni online, i contatti con l’ateneo, ma anche studiando con loro al punto che pure lei avrebbe potuto conseguire la laurea.
Quello di oggi è un epilogo, parziale, di un cammino lungo e per nulla scontato, che parte da lontanissimo, perché uno dei due neo laureati al suo ingresso in carcere non aveva la licenza elementare, mentre l’altro era in possesso della terza media. Un percorso di riscatto attraverso la conquista del sapere, un viaggio dentro i libri che a ogni tappa ti cambia e infatti è Adriana a dire con sicurezza “che oggi in loro non c’è traccia degli uomini che erano”.
In vicende come queste il rischio della retorica resta sempre in agguato, il buonismo a basso costo sul ruolo rieducativo del carcere, che resta, nelle parole di Foucault una cosa “pericolosa, quando non è inutile. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno.” Tuttavia la storia di questi due uomini è la storia di una metamorfosi che va guardata con rispetto e non solo curiosità. Una trasformazione avvenuta grazie alla sensibilità e alla volontà ferrea di Adriana e dei suoi due studenti, alla disponibilità dell’università e di chi dirige il carcere, senza con questo esaltarne il ruolo, perché ogni cosa si è mossa dentro un progetto ben previsto dalla normativa e che mira al riscatto delle persone detenute. Così la “Storia della Società sportiva Calcio Napoli”, raccontata da Barnoffi sotto la guida della docente Tiziana Noce e più ancora lo studio sperimentale di Carannante sulla “Condizione dei familiari dei detenuti: tra etichettamento e inclusione”, realizzato con la guida del sociologo Giap Parini, rappresentano due esempi la cui straordinarietà sta essenzialmente nella difficoltà di realizzare i buoni propositi che pure sono previsti nella normativa carceraria.
Guardare e raccontare le cose di fuori con gli occhi di chi sta dentro è una fatica che merita di vincere il rumore dei chiavistelli che già questa sera torneranno a chiudersi.