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BUONA SCUOLA | Il Far West è dietro la lavagna

Michele Giacomantonio
Michele Giacomantonio
Giugno24/ 2015

di Michele Giacomantonio

L’unica scuola buona è la scuola morta”, avrebbe ringhiato il vecchio John Wayne caricando il suo fucile Winchester. E’ per mettersi a riparo da quel colpo di fucile che da settimane gran parte dei docenti italiani sono sul piede di guerra, tanto per restare nel solco della metafora western. Non che i prof. siano una tribù particolarmente bellicosa, anzi storicamente sono, nella loro maggioranza, la categoria professionale più incline alla tregua, alla quiete e allo star lontani dai conflitti sociali. Questa volta invece la loro mobilitazione contro la riforma renziana, giunta al suo ultimo giro di boa, è stata sin da subito assai forte e ancora in questi giorni gli scioperi rallentano gli scrutini di fine anno.

Dietro la lavagna (ph. Barbara Bonacina)
Dietro la lavagna (ph. Barbara Bonacina)

Dopo i tempi della Moratti e il massacro della riforma Gelmini, l’assalto finale giunge da Renzi” ci spiega Mauro Boarelli, storico e opinionista per le pagine della rivista Gli Asini. Boarelli ci tiene a spiegare subito che “difendere la scuola pubblica come blocco unico è sbagliato, essendo piena di contraddizioni che non possiamo non vedere”, riferendosi alla qualità, spesso non eccelsa, degli stessi insegnanti, punto debole che Renzi conosce e usa come cavallo di Troia presso l’opinione pubblica. “In generale il concorso per la docenza è considerato come una prova inumana, dopo la quale volendo ci si può riposare definitivamente”, scriveva Levi Strauss ironizzando parecchio, ma non si può negare che non sono pochi i prof. che pare abbiano smesso di studiare una volta entrati nelle aule per insegnare. La conseguenza è che le lezioni sono diventate polverose, separate dal rapido mutare della società. Eppure “è ancora nella scuola che si apprende l’etica della cooperazione” spiega ancora Boarelli, per il quale a girare tra i banchi e a parlare agli studenti “dovrebbero essere solo quelle persone motivate e capaci di comunicare, perché si tratta di un lavoro di relazione con le generazioni”. E a questo punto entra in gioco la parola che scuote: il merito, concetto che lasciato così, senza un contesto è parecchio vuoto e anche pericoloso. Per spiegarci quanto grande sia l’insidia celata dietro il vuoto, Boarelli cita il sociologo Michael Young che spiegava come le intelligenze e le competenze che si vogliono far prevalere nella scuola sono quelle misurabili in termini di utilitaristici e dunque più prossime ai modelli e alle gerarchie del mondo industriale, dove le disuguaglianze sono la prassi. Di qui l’uso dei test come quelli Invalsi, finalizzati a questo scopo e non certo a valutare la capacità critica e il pensiero divergente tra gli studenti. Legato al concetto di merito è quello di valutazione che può essere declinato in molti modi, ma diventa efficace solo se calato nel contesto in cui opera la scuola, infatti i docenti maggiormente motivati gridano la loro sfida al governo dicendo: “Venite a guardarci come lavoriamo dentro le classi”.

Come si valuta un professore che insegna per scelta in un territorio dal quale la maggioranza dei suoi colleghi chiederebbe il trasferimento come una fuga? Come si valuta quel prof. che quando un suo studente manca da troppi giorni va di persona a prenderselo a casa, anche se quella casa è nel fortino inespugnabile di una delle più temibili cosche calabresi? Claudio Dionesalvi insegna a Lauropoli, nella piana di Sibari da 14 anni, una delle aree più ricche della Regione e per ciò stesso maggiormente afflitta dalla criminalità organizzata, forte e spietata al punto da uccidere i bambini. “Insegno in una scuola splendida, all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, con colleghi e una preside straordinari”, spiega Dionesalvi, per il quale il professore non è “un domatore di leoni con la frusta, né un buffone, perché quelli stanno alla corte dei potenti, ma un clown che in quanto tale conquista il rispetto per sé”. La sua è una didattica che potrebbe fare a meno delle mura anguste delle aule, troppo spesso luogo di obbedienza e tristezza. La chiama didattica ludica, come quando porta i suoi ragazzi nel cortile e dopo aver disegnato la mappa del gioco dell’Oca fa loro domande di Storia o Italiano. Lo studente che sbaglia resta fermo o retrocede nelle caselle, ma può correre il rischio anche di dover ingoiare un buon cucchiaio di nduja piccante, “e una volta è arrivata una madre che ridendo di gusto mi ha raccontato del figlio che ha passato un pomeriggio in bagno”, dice con allegria Dionesalvi. Restare lì è fatica, fatta anche da 140 chilometri al giorno tra l’andata e il ritorno, ma di chiedere il trasferimento Claudio non ci pensa per nulla, “corro il rischio di ritrovarmi vicino casa, ma con un preside burocrate che mi riempie di carte da compilare”, spiega ridendo.

Meglio fare il professore allora e arrivare alla mente a i cuori dei ragazzi e non morire travolto dai moduli. Almeno fino a quando sarà possibile cavalcare liberi nelle praterie.

Michele Giacomantonio
Michele Giacomantonio

Abbastanza vecchio da portare l’odore dell’inchiostro, non tanto da non usare modi nuovi di scrivere. Il giornalista è un fabbro che fa schizzare le scintille. Perché un racconto si compie se cambia le cose e trasforma la vita reale almeno un po'.

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