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ORIANA FALLACI | Gli alberi in Grecia muoiono in piedi

mmasciata
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Luglio02/ 2015

Oriana fallaci intervista alekos

di Oriana Fallaci*

Atene, settembre 1973

Quel giorno aveva il volto di un Gesù crocifisso dieci volte e sembrava più vecchio dei suoi trentaquattro anni. Sulle sue guance pallide si affondavano già alcune rughe, tra i suoi capelli neri spiccavano già ciuffi bianchi, e i suoi occhi eran due pozze di malinconia. O di rabbia? Anche quando rideva, non credevi al suo ridere. Del resto era un ridere forzato e che durava poco: quanto lo scoppio di una fucilata. Subito le sue labbra tornavano a serrarsi in una smorfia amara e in quella smorfia cercavi invano il ricordo della salute e della gioventù. La salute l’aveva persa, insieme alla gioventù, il momento in cui era stato legato per la prima volta al tavolo delle torture e gli avevano detto:

«Ora soffrirai tanto che ti pentirai d’essere nato».

Ma capivi subito che non si pentiva d’essere nato: non se n’era mai pentito e non se ne sarebbe mai pentito. Capivi subito che era uno di quegli uomini per cui anche morire diventa una maniera di vivere, tanto spendono bene la vita. Né le sevizie più atroci, né la condanna a morte, né tre notti trascorse in attesa della fucilazione, né il carcere più disumano, cinque anni dentro una cella di cemento di un metro e mezzo per tre, l’avevano piegato. Due giorni prima, uscendo da Boiati con la grazia che Papadopulos aveva concesso insieme all’amnistia per trecento prigionieri politici, non aveva detto una sola parola che gli servisse ad esser lasciato in pace. Anzi aveva dichiarato, sprezzante:

«Non l’ho chiesta io, la grazia. Me l’hanno imposta loro. Io son pronto a tornare in prigione anche subito».

Infatti chi gli voleva bene temeva per la sua incolumità quanto e più di prima. Fuori del carcere era troppo scomodo pei colonnelli. Le tigri in libertà sono sempre scomode. Alle tigri in libertà si spara. Oppure gli si tende una trappola per richiuderle in gabbia. Quanto a lungo sarebbe rimasto all’aria aperta? Ecco la prima cosa che pensai quel giovedì 23 agosto 1973 vedendo Alessandro Panagulis.
Alessandro Panagulis. Alekos per gli amici e per la polizia. Nato nel 1939 ad Atene da Atena e Basilio Panagulis colonnello dell’esercito e pluridecorato nella guerra dei Balcani, nella prima guerra mondiale, nella guerra contro i turchi in Asia Minore, nella guerra civile fino al 1950. Secondogenito di tre fratelli straordinari, democratici e antifascisti. Fondatore e capo di Resistenza Greca, il movimento che i colonnelli non riuscirono mai a distruggere. Autore dell’attentato che per un pelo, il 13 agosto 1967, non costò la vita a Papadopulos e la fine della Giunta. Per questo lo arrestarono, lo seviziarono, lo condannarono a morte: pena da lui stesso sollecitata in un’apologia che per due ore tenne i giudici col fiato sospeso.

«Voi siete i rappresentanti della tirannia e so che mi manderete dinanzi al plotone di esecuzione. Ma so anche che il canto del cigno di ogni vero combattente è l’ultimo singulto dinanzi al plotone di esecuzione

Quel processo indimenticabile. Non s’era mai visto un accusato trasformarsi in accusatore, così. Giungeva in aula con le mani ammanettate dietro la schiena, i poliziotti gli toglievano le manette e lo serravano in una morsa cieca agguantandolo alle spalle, alle braccia, alla vita, ma lui balzava in piedi lo stesso, con l’indice teso, a gridare il suo sdegno. Non lo giustiziarono per non farne un eroe. E va da sé che lo divenne ugualmente perché morire, a volte, è più facile che vivere come viveva lui. Lo trasportavano da una prigione all’altra dicendo: «Il plotone di esecuzione ti aspetta». Entravano nella sua cella e lo massacravano di botte. E per undici mesi lo tennero ammanettato, giorno e notte, malgrado i polsi gli fossero andati in putrefazione. A periodi, poi, gli impedivano di fumare, di leggere, di avere un foglio e una matita per scrivere le sue poesie. E lui le scriveva lo stesso, su minuscoli fogli di cartavelina, usando il suo sangue per inchiostro. «Un fiammifero per penna / sangue gocciolato in terra per inchiostro / l’involto di una garza dimenticata per foglio / Ma cosa scrivo? / Forse ho solo il tempo per il mio indirizzo / Strano, l’inchiostro s’è coagulato / Vi scrivo da un carcere / in Grecia

Riusciva anche a mandarle fuori dalla prigione, quelle belle poesie scritte col sangue. Il suo primo libro aveva vinto il Premio Viareggio ed era ormai un poeta riconosciuto, tradotto in più di una lingua, e sul quale si scrivevano saggi, analisi concettose da storia della letteratura. Ma più che un poeta era un simbolo. Il simbolo del coraggio, della dignità, dell’amore per la libertà. E tutto questo mi turbava, ora che me lo trovavo dinanzi. Come si saluta un uomo che è appena uscito da una tomba? Come si parla a un simbolo? E mi mordevo le unghie, nervosa: me ne ricordo perfettamente. Me ne ricordo perché di quel giovedì 23 agosto ricordo tutto. Lo sbarco ad Atene. Il timore di non trovarlo sebbene gli avessi fatto annunciare il mio arrivo. La ricerca di via Aristofanos, nel quartiere di Glifada, dov’era la sua casa: il tassista che finalmente scorge la villetta e si mette a gridare facendosi il segno della croce. Il pomeriggio afoso, i miei vestiti appiccicati al corpo. La folla dei visitatori che gremisce il giardino, la terrazza, ogni angolo della villetta. Gli altri giornalisti, le voci, le spinte. E lui che siede nel mezzo del caos con quel volto di Cristo.
Aveva un’aria molto stanca, anzi esausta. Però appena mi vide si alzò, col balzo di un gatto, e corse ad abbracciarmi come se mi conoscesse da sempre. Se non mi conosceva da sempre, del resto, ci conoscevamo già. Nei periodi in cui gli consentivan di leggere qualche giornale, mi avrebbe narrato, gli avevo fatto compagnia coi miei articoli. E lui mi aveva fatto coraggio col semplice fatto di esistere, essere ciò che era. Così la preoccupazione di dover fronteggiare un simbolo anziché un uomo svanì. Restituii l’abbraccio dicendo «ciao», lui replicò «ciao» e non vi furono altre parole di benvenuto o felicitazione.

Semplicemente aggiunsi:

«Ho ventiquattr’ore per stare ad Atene e preparar l’intervista. Subito dopo devo partire per Bonn. C’è un angolo dove si possa lavorare tranquilli?».

Annuì in silenzio e poi, solcando la folla dei visitatori, mi condusse in una stanza dov’eran molte copie di un mio libro in greco. Oltre a quelle c’era un mazzo di rose rosse che mi aveva mandato fino all’aeroporto e che poi erano tornate indietro perché l’amico incaricato di ricevermi non m’aveva trovato. Commossa, ringraziai bruscamente. Ma lui capì il tono brusco perché, per un attimo, la malinconia gli scomparve dagli occhi e le sue pupille ebbero un lampo di divertimento che mi smarrì di nuovo. Era un lampo che ti faceva intuire una selva di tenerezze e furori in contrasto fra loro, un’anima senza pace.

Sarei riuscita a capire quell’uomo?
Cominciammo l’intervista. E immediatamente mi colpì la sua voce che era seducentissima, dal timbro fondo, quasi gutturale. Una voce per convincer la gente. Il tono era autorevole, calmo: il tono di chi è molto sicuro di sé e non ammette repliche a ciò che dice in quanto non ha dubbi su ciò che dice. Parlava, ecco, come un leader. Parlando fumava la pipa che praticamente non staccava mai dalla bocca. Così avresti detto che la sua attenzione era concentrata su quella pipa, non su di te, e questo gli conferiva una certa durezza che intimidiva perché non si trattava di una durezza recente, cioè maturata dagli strazi fisici e morali, bensì di una durezza nata con lui: grazie alla quale aveva potuto vincere gli strazi fisici e morali. Allo stesso tempo era premuroso, gentile, e restavi come smarrito quando, con virata improvvisa, sai la virata di un motoscafo che procede dritto e di colpo si gira per tornare indietro, tanta durezza si rompeva in dolcezza: struggente come il sorriso di un bimbo. Il modo in cui ti versava la birra, ad esempio. Il modo in cui ti toccava una mano per ringraziarti di un’osservazione. Ciò gli cambiava i lineamenti del volto che, non più doloroso, diventava indifeso. Di volto non era bello: con quegli occhi piccoli e strani, quella bocca grande e ancora più strana, quel mento corto, infine quelle cicatrici che lo sciupavano tutto. Alle labbra, agli zigomi. Eppure ben presto ti sembrava quasi bello: di una bellezza assurda, paradossale, e indipendente dalla sua anima bella. No, forse non lo avrei mai capito. Decisi da quel primo incontro che l’uomo era un pozzo di contraddizioni, sorprese, egoismi, generosità, illogicità che avrebbero sempre chiuso un mistero. Ma era anche una fonte infinita di possibilità e un personaggio il cui valore andava oltre quello del personaggio politico. Forse la politica rappresentava solo un momento della sua vita, solo una parte del suo talento. Forse, se non lo avessero ammazzato presto, se non lo avessero rimesso in gabbia, un giorno avremmo sentito parlare di lui per chissà quali altre cose.
Quante ore restammo nella stanza coi libri e coi fiori a parlare? È l’unico particolare che non ricordo. Non ti accorgi del tempo che passa se ascolti ciò che narrava lui. La storia delle torture, anzitutto, l’origine delle sue cicatrici. Ne aveva dappertutto, mi disse. Mi mostrò quelle sulle mani, sui polsi, sulle braccia, sui piedi, sul costato. Qui stavano esattamente dove stanno le ferite di Cristo: all’altezza del cuore. Gliele avevano inflitte alla presenza di Costantino Papadopulos, il fratello di Papadopulos, con un tagliacarte scheggiato. Però me le mostrava con distacco, nessuna autocommiserazione: lo irrigidiva un autocontrollo eccezionale, quasi crudele. Tanto più crudele quando ti accorgevi che i suoi nervi non erano usciti intatti dai cinque anni d’inferno. E questo lo raccontavano i suoi denti quando mordeva la pipa, lo raccontavano i suoi occhi quanto si appannavano in lampi di odio o di muto disprezzo. Pronunciando il nome dei suoi seviziatori, infatti, si isolava in pause impenetrabili e non rispondeva nemmeno a sua madre che entrava chiedendo se volesse ancora una birra o un caffè. Sua madre entrava spesso. Era vecchia, vestita di nero come le vedove che in Grecia non abbandonano il nero, e il suo viso era una ragnatela di rughe profonde come i suoi dolori. Il marito morto di crepacuore mentre Alekos era in prigione. Il figlio maggiore scomparso. Il terzo figlio in prigione. Del resto era stata in prigione anche lei, per quattro mesi e mezzo. Ma nemmeno lei eran riusciti a piegare. Né con le minacce né con i ricatti. In una lettera a un giornale di Londra, una volta aveva scritto dei figli: «Gli alberi muoiono in piedi».

Gli alberi erano i suoi figli. Un albero era morto quasi sei anni prima: Giorgio.

(1. continua)

*da Intervista con la storia, 1974

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Il collettivo Mmasciata è un movimento di cultura giovanile nato nel 2002 in #Calabria. Si occupa di mediattivismo: LA NOSTRA VITA E' LA NOTIZIA PIU' IMPORTANTE.

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