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ORIANA FALLACI | Se l’uomo greco uccide il tiranno

mmasciata
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Luglio07/ 2015

Oriana e alekos

di Oriana Fallaci*

Da quasi sei anni nessuno sapeva più nulla di Giorgio Panagulis, il fratello maggiore che aveva seguito la carriera del padre raggiungendo il grado di capitano. Nell’agosto del 1967 Giorgio aveva rifiutato di restar nell’esercito greco e, come il fratello Alekos, aveva disertato. Attraverso il fiume Evros era fuggito in Turchia dove aveva raggiunto Istanbul per cercare asilo presso l’ambasciata italiana. Per nostra vergogna, l’ambasciata italiana gli aveva negato l’asilo: tergiversando sulla necessità di informare il governo turco, poi il governo italiano, poi non si sa chi. Giorgio era fuggito di nuovo, stavolta in Siria, e a Damasco s’era ancora rivolto all’ambasciata italiana che s’era comportata nello stesso modo. Tuttavia un’ambasciata più degna, un’ambasciata scandinava, lo aveva ospitato e qui era rimasto un mese: fino al giorno in cui era uscito per strada e la polizia siriana lo aveva scoperto senza passaporto. Fuggito anche alla polizia siriana, aveva raggiunto il Libano. Dal Libano avrebbe voluto imbarcarsi per l’Italia, ma non lo aveva fatto perché i paesi arabi riconoscevano la Grecia dei colonnelli. Aveva preferito entrare in Israele, paese che con la Grecia dei colonnelli non aveva rapporti diplomatici, per recarsi in Italia imbarcandosi a Haifa. E a Haifa, invece, gli israeliani lo avevano arrestato. Giorgio s’era fidato di loro, aveva detto chi era, e loro lo avevano arrestato: per consegnarlo al governo greco. Non gli avevano dedicato nemmeno un processo. Semplicemente, lo avevano caricato su una nave greca che faceva la spola tra Haifa e il Pireo: l’Anna Maria. E a questo punto si perdevano le sue tracce. Sembra che Giorgio fosse ancora nella cabina prima che la nave entrasse nel tratto di mare compreso tra Egira e il Pireo. Ma, quando la nave s’era avvicinata al porto, la cabina era vuota. Fuggito saltando giù dall’oblò? Scaraventato da qualcuno fuori dall’oblò? Il suo corpo non sarebbe stato mai ritrovato. Ogni tanto il mare restituiva un cadavere, le autorità convocavano Atena per vedere se lo riconoscesse, e Atena rispondeva:

«No, non è mio figlio Giorgio».
A una certa ora della notte interrompemmo l’intervista. La folla dei visitatori s’era dispersa e Atena m’aveva offerto ospitalità per la notte. Aveva preparato anche il pranzo, sulla tovaglia migliore. Alekos appariva meno teso, meno solenne, e presto schiuse una porta delle sue infinite sorprese: lasciandosi andare a una conversazione scherzosa. Definiva la sua cella, ad esempio, “la mia villa di Boiati”, e la descriveva come una villa lussuosissima, con piscine aperte e scoperte, campi da golf, cinema privati, scintillanti saloni, uno chef che comprava il caviale fresco in Iran, le odalische che danzavano e lucidavano le manette. In un tal paradiso, una volta, aveva fatto lo sciopero della fame “perché il caviale non era fresco e non era grigio”. E poi, con lo stesso tono, illustrava la sua “arcinota amicizia” con Onassis, Niarcos, Rockefeller, Henry Kissinger, o descriveva i “suoi jet personali”, lo yacht che il giorno avanti aveva “prestato ad Anna d’Inghilterra”. Ed io non credevo ai miei occhi, ai miei orecchi. Possibile che nella tomba di cemento egli fosse riuscito a salvare il suo humour, la capacità di ridere? Possibile, anzi indiscutibile. Però, quando dopocena riprendemmo a parlare per l’intervista, Alekos tornò ad essere serio ed a mordere nervosamente la pipa.

Alekos Panagulis depone nel tribunale militare di Atene
Alekos Panagulis depone nel tribunale militare di Atene

Parlammo, stavolta, fino alle tre del mattino e, alle tre e mezzo, caddi esausta sul letto che m’avevano preparato nel soggiorno. Sopra il letto c’era la fotografia di Basilio, nella sua uniforme di colonnello, e la cornice grondava medaglie d’oro, d’argento, di bronzo: testimonianza delle varie campagne combattute fino al 1950. Accanto al letto, invece, una fotografia di Alekos quando era studente di ingegneria al Politecnico e membro del Comitato centrale della Federazione giovanile del partito «Unione di Centro». Un visino intelligentissimo e arguto, a quel tempo privo di baffi, che non mi aiutava a penetrare un mistero. Allora ricordai d’aver visto, nella stanza accanto, le fotografie dei due fratelli bambini. Mi alzai e le studiai. Quella di Giorgio raccontava un bambino elegante e compunto, educatamente seduto su un velluto rosso. Quella di Alekos invece mostrava un tigrotto dal cipiglio arrabbiato e che, ritto sul velluto rosso, in un annuncio di indipendenze anarchiche, sembrava dire: “No e poi no! Seduto su quel coso io non ci sto!”. Il costumino di maglia pendeva sbrindellato a dimostrare che del suo aspetto esteriore lui se ne fregava dunque era inutile che la mamma lo rimproverasse, lo pregasse, lui faceva lo stesso ciò che voleva. E, quasi a dimostrare ogni rifiuto ai consigli, agli ordini, agli interventi altrui, la manina destra si appoggiava, con orgoglio e provocazione, sul fianco; la sinistra reggeva i pantaloncini nel punto in cui un bottone era schizzato via. Quanto rimasi a studiare quelle fotografie? Questo, davvero non lo ricordo. Però ricordo che a un certo punto la mia attenzione fu attratta da un’altra cosa: un oggetto rettangolare e coperto di polvere. E lo presi in mano con la sensazione di penetrare un segreto, e scoprii che era una Bibbia del seicento, con un documento che ne attribuiva la proprietà ad Alekos Panagulis. Ma era un documento vecchio di trecent’anni e questo Alekos era un bisnonno che aveva combattuto come guerrigliero contro i turchi. Avrei saputo più tardi che, dal 1600 al 1825, la famiglia Panagulis non aveva fornito che eroi. Alcuni si chiamavano Jorgos, cioè Giorgio, come il giovane Jorgos che era morto nella battaglia di Faliero nel 1823. Ma la maggior parte di essi si chiamava Alekos.

L’indomani partii per Bonn. E va da sé che non fu una partenza definitiva. Accompagnandomi all’aeroporto, Alekos m’aveva fatto promettere che sarei tornata e, pochi giorni dopo, quando lui era ricoverato all’ospedale, tornai: scoprendo cose che aiutavano un poco a diradare i segreti della sua inafferrabile personalità. La lunga poesia, anzitutto, che m’avrebbe dedicato. Si intitolava Viaggio e narrava di una nave partita per un viaggio senza soste, una nave che non cedeva mai alla tentazione o al bisogno di attraccare in un porto, di avvicinarsi a una riva, di gettare l’àncora insomma. La ciurma lo reclamava, a volte lo implorava, ma il comandante le resisteva come alla tempesta: continuando a inseguire una luce. La nave era lui, Alekos. Ed anche il comandante era lui, anche la ciurma. Il viaggio era la sua vita. Un viaggio che si sarebbe concluso soltanto con la morte perché l’àncora non sarebbe mai stata gettata. Né l’àncora degli affetti, né l’àncora dei desideri, né l’àncora di un meritato riposo. E nessun ragionamento, nessuna lusinga, nessuna minaccia avrebbe potuto indurlo al contrario. Così, se credevi a quella nave, se tenevi a quella nave, non dovevi cercar di trattenerla, fermarla col miraggio di sponde verdi, paradisi terrestri. Dovevi lasciarla andare per il pazzo viaggio che s’era scelto e che, nella selva delle sue contraddizioni, era il punto fermo di una coerenza assoluta. «Anche Ulisse alla fine si riposa. Raggiunge Itaca e si riposa» osservai dopo avere letto la poesia. E lui mi rispose: «Povero Ulisse». Poi mi porse un’altra poesia che incominciava così: «Quando sbarcasti a Itaca / quale infelicità avrai provato, Ulisse / Se altra vita avevi dinanzi / perché arrivare tanto presto?».

Credo di essergli diventata veramente amica quel giorno, ascoltandolo all’ospedale. Infatti mi recai altre volte ad Atene e pazienza se, ogni volta, le autorità greche erano meno contente. Pur non osando negarmi il permesso di entrata, la polizia di frontiera riempiva per me fogli che non riempiva mai per nessuno e, durante il mio soggiorno ad Atene, si occupavano scrupolosamente della mia persona. Cosa non difficile, visto che abitavo nella casa di via Aristofanos dove il telefono era controllato e dove quattro poliziotti in uniforme, chissà quanti altri in borghese, sorvegliavano ogni porta, ogni finestra, la stessa strada, ventiquattro ore su ventiquattro.
Psicologicamente, era come se Alekos fosse ancora in prigione ed io ci fossi entrata con lui. Una volta mi accompagnò a Creta, per cinque giorni. E per cinque giorni fummo costantemente seguiti, spiati, provocati. Ad Heraclion, dov’eravamo andati per visitare Cnosso, le automobili della polizia ci tamponavano a mezzo metro di distanza. Entravamo in un ristorante a mangiare e loro si piazzavano lì, ad aspettarci. Entravamo in un museo e loro si piazzavano lì, ad aspettarci. Spesso, poi, ce le vedevamo venire incontro dalla direzione opposta perché eran forniti di radio e si davano il cambio. Un incubo. All’aeroporto di Xania venni insultata da un agente in borghese. Sull’aereo che ci riportava ad Atene fummo relegati negli ultimi due sedili e tenuti sotto controllo per l’intero viaggio. Di nuovo ad Atene, non potevamo permetterci il piacere di una cena al Pireo senza che un poliziotto ci raggiungesse, ben presto, per starci alle calcagna. Ci tormentarono perfino ai funerali di un ministro democratico morto per infarto cardiaco e, inutile dirlo, Papadopulos non mi concesse mai l’intervista che secondo l’ambasciata greca di Roma sembrava disposto a darmi. Peccato. Sarebbe stato divertente chiedere al signor Papadopulos cosa intendeva per democrazia. Ed anche per amnistia. Sarebbe stato ancor più divertente narrargli che, ovunque andasse, Alekos era accolto come un eroe nazionale. La gente lo fermava per strada abbracciandolo e magari tentando di baciargli la mano. I tassisti lo facevan salire anche nei punti proibiti. Gli automobilisti fermavano il traffico per salutarlo. E non di rado, nei bar, non volevano che pagasse il conto. Insomma erano tutti per lui e con lui, solo chi era al servizio dei colonnelli era contro di lui. Ed io seguivo lo straordinario fenomeno comprendendo finalmente un poco la difficile creatura che ne era oggetto. Intuendone meglio, ad esempio, i disgusti e le infelicità, la sete di una pace che non sarebbe mai giunta e che si manifestava attraverso esplosioni di collera disperata e disperante, o inutili audacie, o telefonate rabbiose all’uomo forte del regime, Joannidis, per sfidarlo ad arrestarlo di nuovo. Oppure seguendone le astuzie da Ulisse, le fulminanti intuizioni da Ulisse cui assomigliava sempre di più in ogni senso. E le lacrime che gli riempivano gli occhi quando guardava l’Acropoli, simbolo per lui di tutto ciò in cui credeva. E i suoi silenzi cupi. E gli slanci di allegria che lo scuotevano tutto in una gioventù ritrovata per qualche ora, per qualche minuto. E le improvvise risate di fanciullo, gli imprevedibili scherzi subito cancellati da quei suoi voltafaccia d’umore. E il pudore esagerato, anzi puritano, che opponeva alle donne quando gli si offrivano con biglietti amorosi, inviti aperti, strattagemmi volpini. Del resto, sia delle sue avventure passate come dei suoi sentimenti presenti non confidava mai nulla a nessuno: “Un uomo serio non lo fa”. Timido, testardo, orgoglioso, era mille persone dentro una persona sola che non potevi mai rinunciare ad assolvere. Che gioia udirlo dire, a proposito del suo attentato:

«Io non volevo uccidere un uomo. Io non sono capace di uccidere un uomo. Io volevo uccidere un tiranno».

 

* da Intervista con la storia, 1974

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Il collettivo Mmasciata è un movimento di cultura giovanile nato nel 2002 in #Calabria. Si occupa di mediattivismo: LA NOSTRA VITA E' LA NOTIZIA PIU' IMPORTANTE.

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