di Oriana Fallaci*
Dopo aver lasciato la Grecia con me, Alekos Panagulis scelse l’Italia come base politica e geografica della sua lotta. Qui avevamo la casa che avremmo mantenuto per anni, da qui partiva per i suoi viaggi in Francia, in Germania, in Svezia, ed anche in patria dove rientrò varie volte, durante l’esilio, clandestinamente: mai rintracciato dalla polizia di Joannidis. Nel novembre del 1973 la rivolta del Politecnico e il massacro degli studenti avevano provocato un golpe nel golpe: Joannidis aveva esautorato Papadopulos mettendolo agli arresti ed autoeleggendosi padrone indiscusso della Grecia. Il primo nemico di Alekos era diventato dunque Joannidis ed era Joannidis che ora sfidava, con spavalderia suicida, appena scendeva all’aeroporto di Atene con un passaporto falso. Joannidis lo sapeva e cercava Alekos, ogni volta, ma invano. Come una Primula Rossa, Alekos riusciva a passare attraverso le maglie della polizia e prima di lasciare il paese si divertiva addirittura a spedirgli una cartolina di beffardi saluti. Ad Atene restava poco, del resto: dalle ventiquattro alle quarantott’ore, il tempo di organizzare i compagni o di far scoppiare qualche bomba dimostrativa. Aveva ricostituito l’organizzazione Resistenza Ellenica dando particolare importanza al gruppo denominato Laos, Popolo. Con questo gruppo effettuava le azioni più pericolose, attento però a non spargere sangue di innocenti: nessuna bomba fece mai una vittima. In Europa invece agiva attraverso gli emigrati, i partiti democratici, la stampa, la radio, la televisione e i rapporti coi partiti socialisti cui era ovviamente legato. Questo durò fino all’estate del 1974 quando la Giunta cadde travolta dai suoi errori e dalle sue incapacità. Papadopulos era stato un dittatore furbo, non privo di senso politico, Joannidis era un soldato ignorante che di politica capiva ben poco. Illudendosi di annettere Cipro alla Grecia, fece rovesciare Makarios che per puro miracolo sfuggì all’assassinio e ciò portò all’invasione turca dell’isola. Poi, mentre la Grecia era sull’orlo della guerra con la Turchia, indusse la Giunta ad abdicare e, con decisione insieme disperata e paradossale, consegnò il governo agli stessi oppositori che nel 1967 Papadopulos aveva travolto. Karamanlis rientrò ad Atene per fare un governo di emergenza, la democrazia venne formalmente ristabilita.
In quegli undici mesi con Alekos m’ero sempre chiesta come egli avrebbe reagito se la dittatura fosse caduta, ed ammesso che non lo uccidessero prima. Secondo me, infatti, la politica era solo un aspetto del suo straordinario talento e della sua travolgente personalità. Esistevano in lui le stigmate del tribuno e del leader, è vero, e non era facile che vi rinunciasse: però a mio avviso il suo valore nasceva da una vocazione letteraria, la sua vena autentica era la vena poetica. Non a caso amava ripetere: «La politica è un dovere, la poesia è un bisogno».
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Non hai un aria felice, Alekos. Ma come? Sei finalmente fuori da quell’inferno e non sei felice?
No, non lo sono. So che non mi crederai, so che questo ti sembrerà impossibile, assurdo, ma io mi sento più irritato che felice, più triste che felice. Mi sento come domenica scorsa quando udii quegli evviva levarsi dalle celle degli altri detenuti, e ignoravo il perché degli evviva, e pensai: “Deve trattarsi di qualche amnistia. Papadopulos sta facendo il suo proclama, così prepara lo spettacolo con una amnistia capace di impressionare gli ingenui. Può permettersi il lusso di aver meno paura, ormai. Anzi, di fingere d’aver meno paura. Tanto, che gli costa mettere fuori alcuni di noi”. Pensai: “Alcuni di noi” perché non credevo che liberasse anche me. E quando lo seppi, lunedì mattina, non provai nessuna gioia. Nessuna. Mi dissi: se ha deciso che gli conviene liberare anche me, significa che il suo disegno è più ambizioso; significa che conta davvero di legalizzare la Giunta nell’ambito della Costituzione e cercare il riconoscimento degli antichi avversari. Entrando nella cella, il comandante del carcere m’aveva annunciato la grazia: «Panagulis, hai ottenuto la grazia». Gli risposi: «Che grazia? Io non ho chiesto la grazia a nessuno». Poi aggiunsi: «Vi accorgerete presto che mettermi dentro è facile ma tirarmi fuori è difficile. Prima che giunga a Erithrea, mi avrete messo dentro di nuovo». Erithrea è un sobborgo di Atene.
Eppure, quando sei stato fuori, quando hai visto il sole e tua madre, dev’essere stato bello.
Non è stato nemmeno bello. È stato come accecare. Erano tanti anni che non uscivo da quella tomba di cemento, erano tanti anni che non vedevo lo spazio e il sole. M’ero dimenticato com’è fatto il sole, e fuori c’era un sole fortissimo. Quando me lo son trovato addosso, ho dovuto chiudere gli occhi. Poi li ho riaperti un poco, ma un poco soltanto, e con gli occhi semichiusi sono andato avanti. E andando avanti ho scoperto lo spazio. Non mi ricordavo più com’è fatto lo spazio. La mia cella era lunga un metro e mezzo per tre, camminando potevo fare solo due passi e mezzo. Al massimo tre. Riscoprire lo spazio mi ha dato le vertigini. Me lo sono sentito ruotare intorno come una giostra, e ho barcollato, e sono stato per cadere. Anche ora, del resto, se cammino per più di cento metri, divento stanco e disorientato. No, non è stato bello. E se non ci credi non me ne importa. O me ne importa e pazienza. Facevo uno sforzo terribile per andare avanti in tutto quel sole tutto, quello spazio. Poi d’un tratto, in tutto quel sole, tutto quello spazio, ho visto una macchia. E la macchia era un gruppo di gente. E da quel gruppo di gente s’è staccata una figura nera. E m’è venuta incontro, e un po’ per volta è diventata mia madre. E dietro mia madre s’è staccata un’altra figura. E anche questa m’è venuta incontro. E un po’ per volta è diventata la signora Mandilaras, la vedova di Nikoforos Mandilaras assassinato dai colonnelli. E io ho abbracciato mia madre, ho abbracciato la signora Mandilaras, e dopo…
Dopo hai pianto.
No! Non ho pianto! Nemmeno mia madre ha pianto! Noi siamo gente che non piange. Se per caso si piange, non si piange mai dinanzi agli altri. In questi anni io ho pianto solo due volte: quando hanno assassinato Georghatzis e quando mi hanno detto che mio padre era morto. Ma nessuno mi ha visto piangere: ero dentro la mia cella. E poi… poi nulla. Sono andato a casa con mia madre e la signora Mandilaras e l’avvocato. E a casa ho trovato un mucchio di amici. Sono stato con gli amici fino alle sei del mattino, quindi sono andato a letto nel mio letto e non chiedermi se mi sono commosso a dormire nel mio letto. Perché non mi sono commosso. Oh, non sono insensibile, sai! Non lo sono! Ma sono indurito. Molto indurito, e cos’altro ti aspetti da un uomo che per cinque anni è stato sepolto vivo dentro una tomba di cemento, senza alcun contatto col mondo fuorché coloro che lo picchiavano, lo insultavano, lo seviziavano e addirittura tentavano di assassinarlo? Non mi hanno giustiziato dopo aver pronunciato quella condanna a morte, è vero. Però mi hanno seppellito lo stesso: vivo anziché morto. E per questo li disprezzo. Era loro diritto giustiziarmi: perché l’attentato lo avevo fatto eccome. Ma non era loro diritto seppellirmi vivo anziché morto. Ecco perché non avverto che rabbia verso quei pagliacci che ora mi consentono di dormire nel mio letto.
Alekos, non hai paura d’essere ammazzato?
Mah! Visto che vogliono apparire liberali, democratici, neanche ammazzarmi gli converrebbe: in questo momento. Però potrebbero pensarci. Nel marzo del 1970, subito dopo l’assassinio di Policarpos Georghatzis, l’eroe della guerra di liberazione a Cipro e ministro dell’arcivescovo Makarios, ci provarono. Erano circa le sette di sera e io ero al quinto giorno di un nuovo sciopero della fame. D’un tratto udii un fischio e il pagliericcio prese fuoco. Mi gettai per terra, gridai assassini, bastardi, bestie, apritemi la porta. Ma ci volle più di un’ora perché mi portassero fuori, anzi perché mi aprissero la porta. Un’ora durante la quale il pagliericcio continuò a bruciare, a bruciare… Non ci vedevo più, non respiravo più. Quando giunse il medico della prigione, un giovane sottotenente, ero in coma. Come avrei saputo dopo, egli chiese di portarmi subito all’ospedale ma non glielo permisero e per due giorni rimasi tra la vita e la morte nella mia cella. Il medico faceva sforzi disperati per salvarmi e riuscire a trasferirmi in un ospedale. Gli uomini della Giunta si mostravano del tutto indifferenti. Molto spesso svenivo e non potevo parlare perché il torace mi faceva male e perfin respirare mi dava dolori. Dopo quarantotto ore quel giovane sottotenente ottenne che ufficiali medici più anziani mi visitassero e, quando essi videro in quali condizioni ero, furon colti dall’ira. Il capo degli ufficiali medici disse che era un crimine tenermi nella cella, e telefonò ai suoi superiori per protestare. Se è vero ciò che seppi più tardi, chiamò anche il comandante in capo delle forze armate che ora è vicepresidente della pseudo-democrazia, Odisseo Angelis. Gli disse che il loro rifiuto di farmi trasferire in un ospedale era un atto delittuoso e che li avrebbe denunciati. E fu grazie a lui che finalmente mi ricoverarono. All’ospedale mi trovaron nel sangue il 92 per cento di anidride carbonica e dissero che non sarei campato più di due ore: anche se avessi superato le due ore, comunque, non sarei sopravvissuto. E… Ma tu lo sai perché liberarono Teodorakis?
Teodorakis? No.
Perché io stavo per morire. C’era quel francese, ad Atene. Quel Servan Schreiber. E sembra che fosse venuto per portare via me. Non mi avrebbero consegnato a Servan Schreiber nemmeno se fossi stato bene, naturalmente. E, in più c’era il fatto che mi trovavo in stato di coma per il loro tentativo di assassinarmi. Così, e in previsione dello scandalo che sarebbe esploso con la mia morte, gli regalarono Teodorakis. Divertente, no? Non voglio dire, con questo, che non sia stato felice per la liberazione di Teodorakis. Egli aveva talmente sofferto in prigione. Però… la storia resta divertente.
E ora come stai, Alekos?
Meno bene di quanto sembri. La mia salute non va. Mi sento sempre debole, esausto. A volte ho collassi. Ne ho avuto uno ieri, un altro appena uscito di prigione. Non riesco a camminare: tre passi e mi metto a sedere. E a parte questo, un mucchio di cose non vanno: al fegato, ai polmoni, ai reni. Mi hanno portato in clinica e i primi esami non sono stati rasserenanti: lunedì devo ricoverarmi per farne altri. Tutti quegli scioperi della fame, ad esempio, mi hanno debilitato. Mi dirai: ma perché infliggerti anche quegli scioperi della fame? Perché negli interrogatori lo sciopero della fame è un mezzo per tenergli testa. Gli dimostri cioè che non possono prenderti tutto perché hai il coraggio di rifiutare tutto. Mi spiego meglio. Se rifiuti di mangiare e li aggredisci, loro si innervosiscono e il fatto d’esser nervosi non gli permette di applicare una forma sistematica di interrogatorio. Durante le torture, ad esempio, se il torturato tiene un atteggiamento provocatorio e aggressivo, l’interrogatorio sistematico si trasforma in una lotta personale del torturato stesso. Capito? Voglio dire che, con lo sciopero della fame, il corpo si indebolisce e ciò non permette la continuazione dell’interrogatorio perché è inutile interrogare o torturare qualcuno che perde conoscenza. Queste condizioni si realizzano dopo tre o quattro giorni senza cibo né acqua, soprattutte se perdi sangue per le ferite inflitte dalle torture. Così sono costretti a trasferirti all’ospedale e… Oh, anche i miei ricordi dell’ospedale sono dolorosi. Tentavano di nutrirmi con un tubo di plastica che mi infilavan nel naso. Soffrivo molto, anche se avevo la sensazione di guadagnar tempo. E poi…
E poi?
Poi, dall’ospedale, mi riportavano nella stanza della tortura e riprendevano a torturarmi. Allora io facevo di nuovo lo sciopero della fame, e di nuovo li provocavo, di nuovo mi mostravo sprezzante, aggressivo. Così il loro sistema falliva, di nuovo. E di nuovo eran costretti a portarmi all’ospedale dove, di nuovo, tentavano di nutrirmi con la sonda nel naso. Oh, anche il comportamento di alcuni medici era disgustoso. All’ospedale i miei torturatori continuavano l’interrogatorio ma in modo meno consistente perché lì non potevano usare i loro mezzi. Guadagnavo tempo, ripeto, e ciò era importante per me. Insomma, mi sarebbe stato impossibile rinunciare allo sciopero della fame. Era un’arma troppo indispensabile.
Scusa, Alekos. Ho una curiosità. Ma tu lo sapevi che il mondo intero si stava occupando di te e protestava per te?
No. L’ho capito solo il giorno in cui loro sono entrati nella mia cella sventolando i giornali e gridando: «I carri armati russi sono entrati in Cecoslovacchia! Ora nessuno avrà più tempo e voglia di occuparsi di te!». E poi l’ho capito quando mi hanno mostrato ai giornalisti, dopo il primo tentativo di fuga. Erano tanti, di tanti paesi e mi son detto: “Ma allora sanno!”. E ho sentito come una carezza sul cuore. E m’è parso d’essere meno solo. Perché la cosa più atroce sai, non è soffrire. È soffrire da soli.
Ora vorrei sapere un’altra cosa, Alekos. Questa. Dopotanto soffrire, sei ancora capace di amare gli uomini?
Amarli ancora?!? Amarli di più, vuoi dire! Accidenti, ma come fai a porre una domanda simile? Non crederai mica che io identifichi l’umanità con le bestie della polizia militare greca? Ma si tratta di un pugno di uomini! Non ti dice nulla che in tutti questi anni siano rimasti sempre gli stessi?!? Sempre gli stessi. Senti: i cattivi sono una minoranza. E per ogni cattivo vi sono mille, diecimila buoni: cioè le sue vittime. Quelli per cui bisogna battersi. Non puoi, non devi veder così nero! Io ho incontrato tanta gente buona in questi cinque anni! Perfino tra i poliziotti. Sì, sì! Ma pensa solo ai soldatini che rischiavano la pelle per portar fuori della prigione le mie lettere, le mie poesie! Pensa a tutti quelli che mi hanno aiutato, nei tentativi di fuga! Pensa ai medici che mi hanno fatto portare in ospedale e quand’ero in ospedale ordinavano alle guardie di non tenermi legato al letto per le caviglie. «Non posso» rispondevan le guardie. E i medici: «Questa non è una prigioneee! Questo è un ospedaleee!». E quel tale Panayotidis che partecipava alle torture e mi sputava sempre addosso? Un giorno si avvicina a me tutto imbarazzato e mi dice: «Alekos mi dispiace. Ho fatto quello che mi hanno ordinato di fare. Lo avrei fatto anche se mi avessero detto di farlo su mio padre. Non ho il coraggio di oppormi. Perdonami, Alekos». Oh, l’Uomo…
Vuoi dire che l’Uomo è fondamentalmente buono, che l’Uomo nasce buono?
No. Voglio dire che l’Uomo nasce per essere buono, e che è più spesso buono che cattivo. E senti: a me, per accettare gli uomini, basta ciò che mi accadde quando ero all’ospedale dopo il tentativo di ammazzarmi col pagliericcio in fiamme. C’era una vecchia inserviente in quella corsia. Sai una di quelle vecchie che lavano per terra e puliscono i gabinetti. Un giorno viene da me e mi fa una carezza sulla fronte e mi dice: «Povero Alekos! Sei sempre solo! Non parli mai con nessuno! Stasera vengo qui, mi siedo accanto a te, e tu mi racconti le cose: eh?». Poi andò verso la porta e qui fu ghermita dalle guardie che la portarono via. Non venne quella sera. Io la aspettai ma lei non venne. Non la vidi più. Non ho mai saputo cosa le hanno fatto e…
Piangi, Alekos? Tu?!?
Non piango. Io non piango. Io mi commuovo. La gentilezza mi commuove. La bontà mi commuove. E allora sono commosso. Capito?
Capito. Sei religioso, Alekos?
Io? Io no. Voglio dire: non credo in Dio. Se mi parli di Dio, ti rispondo con la risposta di Einstein: credo nel Dio di Spinoza. Chiamalo panteismo, chiamalo come ti pare. E se mi parli di Gesù Cristo rispondo che mi sta bene perché non lo considero figlio di Dio ma figlio degli uomini. Il solo fatto che la sua vita sia stata ispirata dalla volontà di alleviare il dolore umano, il solo fatto che abbia sofferto e sia morto per gli uomini e non per la gloria di Dio, mi basta a considerarlo grande. Il più grande di tutti gli dei inventati dall’Uomo. Vedi, l’uomo non può prescindere dall’idea dell’amore perché non può vivere senza amore. Io ho ricevuto tanto odio nella vita ma ho ricevuto anche tanto amore. Da bambino, ad esempio. Sono stato un bambino felice perché sono cresciuto in una famiglia in cui ci si è tanto amati. Ma non era una questione di famiglia e basta. Era una questione… come dire? di scoperte. Per esempio, durante l’occupazione italiana ci eravamo rifugiati nell’isola di Leucade dove c’erano tanti soldati italiani. Mi chiamavano sempre: «Piccolo, piccolo, piccolo!», e poi mi davano regali. Una cioccolata, una galletta. Mio padre, ufficiale dell’esercito, non voleva che li accettassi e pretendeva che li buttassi via, quei regali. Mia madre invece no: «Raccatta e ringrazia». Mia madre sapeva che non lo facevano per insultarmi ma per esser gentili. Sapeva che non erano soldati cattivi ma uomini buoni. Io sono stato meno felice dopo, a crescere. È difficile sentirsi completamente felice quando ci si accorge che agli altri non importano sempre le cose che importano a te. E quando vedevo nei miei coetanei l’indifferenza pei problemi della vita, io… ecco non ero più capace di esser felice. Come oggi.
È curioso Alekos: parli come un uomo che non può concepire neanche l’idea di fare un attentato, di uccidere.
Io, prima del 21 aprile, cioè prima dell’avvento dei colonnelli, non concepivo neanche l’idea di uccidere. Non avrei potuto fare del male al mio peggior nemico. Del resto ancora oggi, l’idea di uccidere mi ripugna. Non sono un fanatico. Vorrei che tutto cambiasse, qui in Grecia, senza una singola goccia di sangue. Non credo alla giustizia applicata in modo personale. Ancora meno credo alla parola vendetta. Io perfino per coloro che mi hanno seviziato non concepisco la parola vendetta. Uso la parola punizione e sogno soltanto un processo. Mi basterebbe soltanto che li condannassero a un giorno di prigione nella cella dove sono rimasto cinque anni. Tengo troppo alla legge, al diritto, al dovere. Infatti non ho mai contestato a Papadopulos il diritto di processarmi e di condannarmi. Io ho sempre protestato per il modo in cui esercitavano la loro condanna, per le botte che mi davano, per le crudeltà che mi infliggevano, per la tomba di cemento in cui mi tenevano proibendomi perfino di leggere e scrivere. Ma, quando uno fa quello che ho fatto io, l’attentato voglio dire, non va contro la legge. Perché agisce in un paese senza legge. E alla non-legge si risponde con la non-legge. Mi spiego? Senti: se tu cammini per strada, e non dai noia a nessuno, e io ti prendo a schiaffi, e tu non puoi nemmeno denunciarmi perché la legge non ti protegge, che pensi? Che fai? Bada, ho parlato di schiaffi: niente di più. Uno schiaffo non fa nemmeno male, è solo un insulto. Però deve pur esistere una legge che mi proibisce di prenderti a schiaffi! Una legge che mi proibisce perfino di darti un bacio, se tu non lo vuoi! E se questa legge non esiste, tu cosa fai? Non hai forse il diritto di reagire e magari di uccidermi perché non ti disturbi più? Farti giustizia da te diventa una necessità! Anzi un dovere! Sì o no?
Sì.
Io non ho paura a dirtelo: io conosco anche l’odio. Amo tanto l’amore e sono pieno di odio per chi uccide la libertà, per chi l’ha uccisa in Grecia ad esempio. Accidenti, è difficile dire queste cose senza apparire retorici ma… C’è una frase che ricorre spesso nella letteratura greca: «Felice di essere libero e libero di essere felice». Sicché quando un tiranno muore di morte naturale nel suo letto, io… Che vuoi farci? Mi sento travolto dalla rabbia. Travolto dall’odio. Secondo me è un onore per gli italiani che Mussolini abbia fatto la fine che ha fatto ed è una vergogna per i portoghesi che Salazar sia morto nel suo letto. Così come sarà una vergogna, per gli spagnoli, che Franco muoia di vecchiaia. Accidenti! Non si può accettare che un’intera nazione si trasformi in un gregge. E ascolta: io non sogno l’utopia. Lo so bene che la giustizia in assoluto non esiste, non esisterà mai. Però so che esistono paesi dove si applica un processo di giustizia. Quindi ciò che sogno è un paese dove chi è aggredito, insultato, privato dei suoi diritti, può chiedere giustizia a un tribunale. È troppo pretendere? Boh! A me sembra il minimo che possa chiedere un uomo. Ecco perché me la piglio tanto coi vigliacchi che non si ribellano quando i loro diritti fondamentali vengono violati. Sui muri della mia cella avevo scritto: «Odio i tiranni e sono nauseato dai vigliacchi».
Alekos… è una domanda difficile. Cosa provasti quando ti condannarono a morte?
Sul momento, nulla. Me l’aspettavo, ci ero preparato, e quindi non provai nulla fuorché la consapevolezza di contribuire morendo a una lotta che sarebbe continuata attraverso gli altri.
Ed eri certo che ti avrebbero fucilato?
Sì. Assolutamente certo.
Alekos… questa è una domanda ancora più difficile. E non so se vorrai rispondere. Cosa pensa un uomo che sta per essere fucilato?
Me lo son chiesto anch’io. Molte volte. E ho cercato di dirlo in una poesia che mentalmente scrissi la mattina in cui vennero a chiedermi se domandavo la grazia ma risposi no… È una poesia che rende bene l’idea di ciò che pensai in quel momento. Eccola. «Come / i rami degli alberi ascoltano / i primi colpi dell’ascia / così / quella mattina / i comandi / giungevano ai miei orecchi / Nello stesso momento / vecchie memorie / che credevo morte / inondavano il pensiero / simili a singhiozzi / singhiozzi laceranti del passato / per un domani che non sarebbe giunto / La volontà / quella mattina / era soltanto augurio / La speranza? / anch’essa si perdeva / ma neanche un momento ero pentito / che il plotone aspettasse.» E guarda: ch’io sappia, vi sono tre scrittori che l’hanno spiegato in modo simile a ciò che ho provato io. Uno è Dostoevskij ne L’Idiota. L’altro è Camus ne Lo Straniero. Il terzo è Kazantzakis nel libro che racconta la morte di Cristo. Ciò che dice Dostoevskij lo sapevo: avevo letto L’Idiota. Ma Lo Straniero non lo avevo letto e quando ciò avvenne, molto tempo dopo, a Boiati, mi turbò scoprire che avevo pensato le stesse cose mentre aspettavo l’ora dell’esecuzione. Voglio dire, tutte le cose che uno vorrebbe fare se non stessero per tagliargli la testa. Scrivere una poesia, ad esempio, o una lettera. Leggere un libro, crearsi una piccola vita in quella piccola cella. Una vita ugualmente meravigliosa perché vita… Ma soprattutto mi turbò leggere la versione che Kazantzakis dà sulla morte di Cristo. In quel libro v’è un momento in cui Cristo chiude gli occhi, sulla croce, e dorme. E sogna un sogno che è un sogno di vita. Sogna che… Ma non voglio parlare di questo. Non è bello parlare di questo.
Alekos, io mi chiedo come tu abbia fatto a mantenere un cervello lucido dopo esser rimasto cinque anni solo e sepolto dentro una scatola di cemento poco più larga di un letto. Come hai fatto?
Semplicemente rifiutando l’idea d’essere stato sconfitto. Del resto non mi sono mai sentito sconfitto. Per questo non ho mai smesso di battermi. Ogni giorno era una battaglia nuova. Perché volevo che ogni giorno fosse una battaglia nuova. Non ho mai permesso a me stesso di cadere nell’inerzia. Pensavo al mio popolo oppresso e la mia rabbia si trasformava in energia. Proprio questa energia mi aiutava a immaginare sempre nuovi modi per scappare. Non volevo scappare per il semplice fatto di scappare, insomma di non stare più in prigione. Volevo scappare per continuar la mia lotta, per stare di nuovo coi miei compagni. Ero entrato nella lotta deciso a dare tutto di me e la mia disperazione nasceva dalla certezza di aver dato troppo poco, di aver fatto troppo poco. Quando la Grecia era stata travolta dalla dittatura, avevo detto ai miei amici: «La mia sola ambizione è quella di dare la mia vita per porre fine a questa dittatura, il mio solo desiderio è quello d’essere l’ultimo morto di questa battaglia. Non per vivere più degli altri ma per dare più degli altri». Ed oggi, in tutta sincerità, posso dire la stessa cosa ai miei amici e non mi importa che i nostri nemici lo sappiano. Anzi. Non mi illudo affatto d’essere vivo il giorno in cui si festeggerà la vittoria ma credo con tutto il cuore che quel giorno sarà festeggiato. Perché ciò accada, però, bisogna che io continui a battermi. E tale idea, insieme all’idea di scappare, mi aiutò in quei cinque anni a non diventar pazzo.
Parliamo di Papadopulos.
Senti, io non posso prendere sul serio questo Papadopulos. È un tipo che puoi capire soltanto se analizzi la sua storia. Una storia che dimostra subito quanto sia disonesto, mentalmente malato, bugiardo. Per sei anni ha detto solo bugie e quante volte, per vomitare il mio disgusto, io gliel’ho scritto! Sai, quelle lettere che davo al direttore della prigione. In ciascuna lo definivo comico, pagliaccio, ridicolo, buffone, criminale e mentalmente malato. Non credere che stia esagerando o che mi faccia prendere dall’ira. Tutte queste cose risultano abbondantemente dalla sua biografia. È lui il capitano che partecipò al colpo di Stato, peraltro fallito, del 1951: coi brigantini Cristeas eTabularis. È lui che, come tenente colonnello, fu segretario della commissione che preparò il famoso Piano Pericle con cui tentarono di falsificare i risultati delle elezioni del 1961. Quando il governo democratico ordinò un’interrogazione sul Piano Pericle, quel cretino rispose di non conoscere la sintassi greca e quindi non poter essere il responsabile. Troverai questa notizia sui documenti ufficiali, peraltro pubblicati su tutti i giornali greci di quel tempo. È lui che all’inizio del 1965 compì un sabotaggio nel suo reparto e poi torturò personalmente alcuni dei suoi soldati affinché confessassero che si trattava di un sabotaggio comunista. Era a capo dell’Ufficio propaganda e guerra psicologica e chiunque sa che ordinò lui l’assassinio di Policarpos Gheorgatzis. Chiunque sa che fu lui a voler l’episodio con cui tentarono di assassinarmi in prigione. Che sia un uomo ridicolo, del resto, lo si può giudicare anche dal fatto che abbia esteso l’amnistia ai torturatori. Questo non è forse ammettere che la tortura esisteva? E non equivale forse ad incoraggiare altre torture?
Alekos, ma tu credi che Papadopulos vi abbia messo fuori per rovesciarlo?
No davvero. Ma lui crede che non si sia in grado di rovesciarlo. E questo è il suo errore perché la resistenza in Grecia è una realtà. La gente vi partecipa, sia pure in modo passivo per ora. Vi partecipa, ad esempio, rifiutando la dittatura all’unanimità. L’impegno assunto dall’intero mondo politico greco è quello di seguire la volontà popolare. E tale impegno si manifesta non aiutando Papadopulos a legalizzare il suo regime. Io sono certo che nessun uomo politico rispettabile, in Grecia, parteciperà alla mascherata delle elezioni. Devi capire che possiamo rovesciarlo. Papadopulos non è uscito da una guerra civile come Franco: è uscito da un colpo di Stato. Quando Franco andò al potere, i suoi oppositori erano decimati. Sconfitti. Gli ultimi democratici lasciarono la Spagna come El Campesino. Qui è diverso. Qui nessuno è stato sconfitto. Nessuno è stato decimato. E, perché la dittatura finisca, basta che il popolo greco non si addormenti come si addormentò il popolo italiano. Il popolo tende sempre a dormire, rassegnarsi, accettare. Però basta poco a svegliarlo. Mah! Forse manco di realismo, di informazioni, e anche di logica. Ma se si parla di logica, rispondo: quando mai la logica ha fatto la storia? Se la logica facesse la storia, gli italiani non si sarebbero lasciati affascinare da Mussolini e Hitler non sarebbe esistito e Papadopulos non sarebbe andato al potere. Controllava solo alcune unità in tutta l’Attica, e alcune unità in Macedonia. E quando si parla di politica…
Ma la tua ideologia politica, Alekos, qual è ?
Non sono comunista, se è questo che vuoi sapere. Non potrei mai esserlo, visto che rifiuto i dogmi. Ovunque c’è dogma non c’è libertà, dunque i dogmi a me non stanno mai bene. Sia i dogmi religiosi che quelli politico-sociali. Chiarito questo, mi è difficile mettere un distintivo e dire che appartengo a quella o a quell’altra ideologia. Posso dirti soltanto che sono un socialista: nella nostra epoca è normale, direi inevitabile, essere socialisti. Però quando parlo di socialismo, parlo di un socialismo applicato in regime di totale libertà. La giustizia sociale non può esistere se non esiste la libertà. I due concetti per me sono legati. Ed è questa la politica che mi piacerebbe fare se in Grecia avessimo la democrazia. È questa la politica che m’ha sempre sedotto. Oh, se appartenessi a un paese democratico, credo proprio che mi darei alla politica. Perché quella che fo ora o che ho fatto finora non è politica: è solo un flirt con la politica. E a me piace flirtare, sì, però l’amore mi piace molto di più. In democrazia far della politica diventa bello come far l’amore con amore. Ed è questo il mio guaio. Vedi, vi sono uomini capaci di far della politica solo in tempo di guerra, cioè in circostanze drammatiche, e vi sono uomini capaci di far della politica solo in tempo di pace, cioè in circostanze normali. Paradossalmente, io appartengo ai secondi. Tutto sommato, tra Garibaldi e Cavor preferisco Cavour. Però devi capire che dal momento in cui la Giunta ha preso il potere né io né i miei compagni abbiamo fatto della politica. Né la faremo fino al momento in cui la Giunta sarà rovesciata. Non dobbiamo fare politica, non possiamo fare politica ammenoché non si abbia una forza operante. E questa forza operante è la resistenza, cioè la lotta.
Alekos, tu dici che paradossalmente appartieni ai cavouriani. Davvero paradossalmente, visto che come personaggio politico sei diventato famoso attraverso un attentato alquanto garibaldino. Alekos, ti capita mai di maledire il giorno in cui facesti quell’attentato?
Mai. E per le stesse ragioni per cui non mi capita mai di sentirmi pentito. Guarda, mi sarebbe bastato dire al processo che ero pentito e quelli non mi avrebbero condannato a morte. Non lo dissi invece, come non lo dico ora, perché non ho mai cambiato idea. E penso che non la cambierò neanche in futuro. Papadopulos è colpevole di alto tradimento e di molti altri crimini che nel mio paese vengono puniti con la pena di morte. Non ho agito da fanatico pazzo e non sono un fanatico pazzo. Sia io che i miei compagni abbiamo agito come strumenti della giustizia. Quando a un popolo viene imposta la tirannia, il dovere di ogni cittadino è uccidere il tiranno. Non bisogna pentirsi e la nostra lotta continuerà fino a quando la giustizia e la libertà saranno ristabilite in Grecia. Ho, anzi, abbiamo imboccato una strada da cui non si torna indietro.
Non pensarci più, Alekos. Forse è atroce dirlo, è andata come doveva andare. Perché oggi sei un simbolo cui perfino i nemici guardano con ammirazione e rispetto.
Mi sembri quelli che dicono: «Alekos, sei un eroe!». Non sono un eroe e non mi sento un eroe. Non sono un simbolo e non mi sento un simbolo. Non sono un leader e non voglio essere un leader. E questa popolarità mi imbarazza. Mi disturba. Te l’ho già detto: non sono l’unico greco che ha sofferto in prigione. Io, ti giuro, questa popolarità riesco a tollerarla solo quando penso che serve quanto sarebbe servita la mia condanna a morte. E allora la giudico con lo stesso distacco con cui accettai la mia condanna a morte. Però, anche messa così, è una popolarità molto scomoda. E antipatica. Io, quando mi chiedete «cosa-farai- Alekos», io mi sento svenire. Cosa devo fare per non deludervi? Ho tanta paura di deludere voi che vedete tante cose in me! Oh, se riusciste a non vedermi come un eroe! Se riusciste a vedere solo un uomo in me!
Alekos, cosa significa essere un uomo?
Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se. E per te cos’è un uomo?
Direi che un uomo è ciò che sei tu, Alekos.
* Tratto da Intervista con la storia, 1974