Quando muore una persona speciale, una di quelle che, anche solo per qualche ora, ha reso meno faticosa la tua vita regalandoti un sorriso, fai di tutto per tenerla legata a te. E allora capita di desiderare, anzi, di pretendere che quella persona non si allontani mai dal tuo sguardo e dalle poche sicurezze che hai. Cerchi disperatamente un appiglio, un gesto che, in quei momenti di dolore, sembra darti l’illusione che quella persona sia ancora lì al tuo fianco.
Lo smarrimento per la morte prematura di Gigi Marulla aveva bisogno subito, immediatamente, di una risposta che desse sollievo. Quasi contemporaneamente, ogni cosentino, per difendersi dalla tremenda notizia, ha pensato allo stadio con il suo nome e al ritiro della maglia numero nove, con la quale Gigi ha regalato gol e gioie infinite a quello che mai, nell’estate del 1982, giorno del suo impacciato arrivo in città, immaginava sarebbe diventato il suo popolo. Lui, timido ragazzo della provincia di Reggio Calabria, trasformatosi, quasi senza volerlo, in uno degli uomini migliori di una città ricca di cultura e storia come Cosenza. Lo stadio San Vito da domani sarà di Gigi Marulla, e nessuno, questo è certo, si azzarderà mai più a chiamarlo col suo vecchio nome. Si farà fatica ancora per molti anni, forse per sempre, ad abituarsi a chiamare Bilotti piazza Fera, ma lo stadio no, ormai è suo. Perché, in fondo, è sempre stato suo.
(video di Ilenia Caputo)
Gigi Marulla non era un mercenario, era un calciatore all’antica, di quelli che non si trovano più. E’ stato paragonato alle ultime bandiere del calcio moderno ma, a pensarci bene, per campioni come Totti, Maldini e Del Piero il cammino è stato molto più semplice. A differenza loro, Marulla giocava in una piccola squadra di provincia e, pur essendo il migliore, non era riempito d’oro. Ha rifiutato la serie A per restare in una terra povera e amara. Sapeva benissimo di meritare di più, ma ha preferito ascoltare il suo cuore. Una lezione di umiltà e attaccamento difficili da far comprendere agli atleti che oggi vengono osannati dalle nuove generazioni. Personaggi come Marulla appartengono all’epoca d’oro del calcio, quella che ha fatto diventare questo sport poesia e letteratura alta. E non importa se la sua maglia numero nove il Cosenza non potrà mai ritirarla. La serie C, oggi Lega Pro, categoria tradizionalmente più vicina ai lupi, per ora non ammette numeri personalizzati per le proprie rose. Quando si scende in campo, si possono indossare le divise con la numerazione dall’uno all’undici. Come accadeva un tempo, anche nella massima serie.
Una volta, un campione vero, per essere riconosciuto come tale, non aveva bisogno di segni distintivi sulla propria casacca. Bastava guardarlo negli occhi durante una partita per capire. Ma quel gioco era diverso, più romantico, più faticoso, più eterno. Era un calcio che faceva piangere lacrime di rivincita sociale dopo un gol che non valeva la Champions League o lo scudetto, ma una “semplice” permanenza in serie B. Marulla aveva scelto consapevolmente e con orgoglio di vivere, insieme alla sua gente, quella piccola gloria di provincia. Una gloria che, però, da piccola è diventata unica. Come quello stadio, come quella maglia numero nove, come quella sensazione rassicurante di saperlo sempre lì, a curare le sue piante mentre alle sue spalle un gruppo di bambini corre dietro ad un pallone.
(video di Stefano Pascuzzo)