Sometimes I dream about reality canta dopo aver atteso il tramonto di Molarotta, José Manuel Arturo Tomás Chao Ortega, figlio di Ramón ill giornalista e della sua Felisa, coppia di esuli dalla ferocia del dittatore Francisco Franco. Chissà cosa può ancora provare lontano da quella casa parigina che ospitava decine e decine si artisti in fuga dalle dittature del Sud America, il menestrello Manu Chao. Chissà cosa avrà provato a vedere il muro umano (azzardiamo diecimila?) assiepato ai secolari pini della Sila per l’evento principale della Sila Suona Bee 2015 dopo aver suonato a Tijuana, Buenos Aires, Caracas, Ciudad de México e svariate altre città del mondo ogni volta davanti a centinaia di migliaia di persone. Di certo una forte e sincera energia bidirezionale per la quale ha ringraziato svariate volte la Calabria dal microfono, che per la prima volta ha ospitato un live dell’icona mondiale della musica meticcia e ribelle al sistema neoliberista. Clandestino, pezzo bomba di un album che ha venduto oltre 4 milioni di copie nel mondo, è stata dedicata con trasporto ai popoli di Lampedusa. Un’abitudine per l’artista più radicale del tempo nostro, quello di schierarsi dalla parte dei diseredati. Dal Chapas a Genova, dalla Colombia a Cordoba, ogni concerto organizzato per sostenere la causa di genti in lotta contro i crimini della globalizzazione ne ha fatto un personaggio unico nella sua generazione, per molti un mito.
(Immagini di Orlando Vigna e Irene Napoli)
Ascoltarlo cantare e urlare nel cuore dei boschi di questo particolare Sud del Mondo la voce che difende l’Amazzonia, sentire il microfono sbattergli sul petto più forte della grancassa, è stata un’esperienza condivisa da un pubblico festoso e composto, di diverse classi di età, in una giornata che è stata sostanzialmente di festa. Lo scenario incantato della Sila e i 200 ettari regno della bovina podolica calabrese, sono più congeniali a Manu Chao di quanto si possa immaginare. Preferisce posti spartani e tranquilli a lussuosi hotel e una volta ha raccontato che, convinto che la propria carriera fosse finita dopo lo scioglimento dei Mano Negra, passò tre anni sabbatici in giro per il mondo in preda a una crescente depressione che rischiava di finir male. “E’ stata una mucca a salvarmi” confidò al giornalista Peter Culshaw, spiegando quanto, ormai sull’orlo del suicidio, fosse stato colpito dalla compassione che aveva letto negli occhi dell’animale incontrato nei pressi di Rio. Nella Vida Tombola si sono sentiti alcuni sostituire in coro il nome di Maradona con quello di Marulla, e parecchio divertente nel finale è stato vedere il genio solitario tornare all’amore per la schitarrata di spalla con i due fiati del Salento che si prendono microfono e pubblico per improvvisare una pizzica. Nonostante il trascinatore Jean «Gambit» Michel sia stato costretto da un’ingessatura a rimaner seduto, ogni pezzo è stato tirato fino all’estremo con ritornelli ossessivi e di natura danzereccia, ma la vera chiusura del concerto di più di due ore e mezzo è quella con la chiave autobiografica, quando con Desaparecido Manu Chao intona una ballata epica quanto intima: porto nel corpo un dolore | che non mi lascia respirare | porto nel corpo una condanna | che mi costringe a camminare | mi chiamano il desaparecido | che quando arriva già se ne è andato.
Fiera e rebelde la Sila Tòmbola che lo ha accolto; prossima stazione Esperanza, naturalmente.