di Marco Panettieri (da Parigi)
Venerdì 13 novembre 2015 – Ore 22 e 41 | Ero già nel letto quando ho ricevuto il primo messaggio, era un amico di Bocchigliero. Il tono del messaggio non era il solito, poca voglia di scherzare. Dove sei, cosa fai, a Parigi sta succedendo un casino. Apro subito la tv: il primo bilancio è di 18 morti, ma ci sono ostaggi, varie sparatorie, sospetto che possa essere destinato a crescere. Mando i primi messaggi per tranquillizzare tutti. A Versailles è un via vai di sirene, ma gli attentatori sono lontani, ci separano 30 km di sicurezza dettati dal caso. Mercoledì approfittando del giorno rosso sul calendario per l’Armistizio della Grande Guerra passeggiavamo per i giardini di Versailles e organizzavamo una birra a Place de la Republique proprio per ieri sera, saltato all’ultimo momento per degli imprevisti a lavoro. Dovevamo essere anche noi nello scenario di guerra che si è scatenato ieri notte, pensandoci e ripensandoci ho preso sonno a mezzanotte passata, contando i morti che nel bilancio delle vittime del tg cresceva verticosamente.



Sabato 14 novembre, ore 4 e 47 | Sono in piedi alle 5 e siamo a quota 100, ma un’amica su Facebook pubblica già il dato di 130 persone uccise. Lo stesso social network mi chiede come sto, di pubblicare uno stato per rassicurare tutti. Lo faccio, poi con calma mi vesto ed esco per andare a lavoro. Il sabato mattina non c’è quasi mai nessuno nel treno che va verso le banlieue. Oggi era stranamente pieno, molte famiglie dall’aspetto maghrebino con enormi valigie, qualche bianco scruta palesemente sospettoso tutti i loro movimenti. Penso che devono essere persone con problemi di visto che, data la situazione, si allontanano dalla zona calda dei controlli. Ho la barba lunga, i capelli rasati e qualche bianco guarda nello stesso modo anche me anche me. Non saranno giorni facili. A lavoro trovo la stessa guardia giurata che c’era subito dopo gli attentati di gennaio. Sono i piani di vigilanza, quelli che coinvolgono fra gli altri 1500 militari armati di fucili d’assalto nella sola Parigi. Quelli che ti costringono a viaggiare col passaporto perché alla carta d’identità italiana non crede nessuno. Quelli che in pieno centro sono stati messi in scacco da otto ragazzini armati fino ai denti. Chi si fa paladino della guerra e del pugno duro per sconfiggere il terrorismo, dovrebbe almeno ammettere che la loro efficienza nel perpetrare la lotta armata è nettamente superiore alla nostra, la cronologia degli eventi fa capire di che precisione abbiano avuto nell’attuare il loro attacco in zone diverse della città.
Sabato 14 novembre, ore 14 e 23 | Tutti mi dicono di non uscire, di non espormi, di evitare i luoghi pubblici. Se siete stati a Parigi almeno una volta, sapete che Chatelet e Republique sono due quartieri per cui si deve passare per forza, impossibile evitarli. Ma se anche fosse possibile, veramente vogliamo arrenderci al terrore? Veramente vogliamo vivere nella paranoia, isolati come degli eremiti? Io non ci riuscirei. Ieri l’hashtag #portesouvertes è stato usato per dare rifugio a chi si trovava nei luoghi degli attentati, magari bloccato dai cordoni di polizia o semplicemente dalla chiusura delle metro. In molti, non francesi, hanno criticato l’atteggiamento, dicendo che era un’esposizione alla possibile entrata nelle case dei terroristi. Questo a me fa più paura dei colpi di kalashnikov. Scegliere l’isolamento piuttosto che la collaborazione è una vittoria dei terroristi, è un cambiamento radicale nella nostra società, che ho già vissuto quando ero negli USA e che è in atto da anni anche nella mia in Italia, dove le “cose” da difendere sono diventate più importanti della vita delle persone e la guerra, l’esportazione della democrazia o le religioni sono presentate come la soluzione del problema, quando invece ne sono inesorabilmente le cause.