Bastano otto giorni di trincea a demolire un uomo. P. N. è un ragioniere cosentino dalla vita umile e ritirata. Reclutato in gran fretta a pochi mesi dalla fine del militare si trova catapultato fra i cunicoli della Prima guerra mondiale. Ha appena 18 anni. Tra gli sbandati della dodicesima battaglia dell’Isonzo, meglio nota come “Caporetto”, P. N. torna che non è più lo stesso. Gli mancano suoni e colori, mentre nella sua mente medici e frenologi dei vari ospedali militari e psichiatrici nei quali è depositato scorgono in lui inequivocabili i segni dell’alienazione mentale. Dopo cinque anni dietro sbarre gli si profila la possibilità di accedere grazie all’articolo 66 del regio decreto del 1909 alla “dimissione in esperimento“. Un familiare è disposto ad accollarsi cioè il peso della sua pazzia ma, dopo nemmeno un anno, il ritiro della firma lo conduce immediatamente nell’ospedale psichiatrico “Casa della divina provvidenza” di Bisceglie da dove uscirà cadavere nel 1941 per enterocolite e paralisi cardiaca.
Quando N. A. entra per la prima volta in manicomio nel 1930, a 46 anni, è praticamente un cadavere che cammina. Il primo contatto con lo spazio manicomiale del “Leonardo Bianchi” di Napoli al quale è stato coattamente affidato dal prefetto di Cosenza ha il volto impassibile di sanitari e medici frenologi col ruolo di derubricare la complessità della sua persona umana con un semplice quanto complesso “episodio delirante in deficiente imbecille”. Termini che oggi hanno il suono di un’offesa, la stessa inferta qualche anno prima alle sue fragili membra dalla terribile pandemia di febbre spagnola che solo in Italia tra il 1918 e il 1919 uccide circa 600 mila persone. Da quel momento è un lungo susseguirsi di malattie ed incidenti che lo portano a spegnersi per marasma generale in frenastenico nell’estate del 1944.
«Ritornerò come nuova» aveva promesso al marito e ai suoi 4 figli G. L., donna trentaduenne casalinga della provincia di Cosenza, prima di varcare i cancelli dell’ospedale psichiatrico “Santa Maria della Pietà” di Roma nel 1896. Urla, strepiti e comportamenti insoliti avevano portato il questore a firmare il suo internamento coatto. In tutti i modi G. L. cerca di spiegare che dopo quella rosolia non era più la stessa: dopo un primo periodo di osservazione nel quale viene curata come epilettica le vengono diagnosticate una paranoia allucinatoria cronica e una cerebrale persecutoria. Rimane lì per 9 lunghi anni. Trasferita nel manicomio di Ceccano, di lei si perdono definitivamente le tracce.
Sono solo stralci di vite ricavate da cartelle cliniche provenienti di ex manicomi italiani che descrivono movimenti lenti praticati da fisici imbelli, piegati e piagati più dalla cura che dalla malattia. E poi numeri, patologie, devianze, abuso di farmaci e terapie d’urto ma anche di potere. Rari casi di miglioramento, morte nei “bracci”, trasferimenti forzati, famiglie divise dagli “scherzi della mente”. Carte scomode da slegare, analizzare e utilizzare come valido esercizio di memoria. Memoria individuale e famigliare che diventa collettiva grazie alle cartelle cliniche di 82 “matti” tutti nati in provincia di Cosenza, facenti parte del progetto (qui) “Carte da legare. Archivi della psichiatria italiana” della Direzione generale degli archivi facente capo al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Le infografiche che vi proponiamo in esclusiva ridisegnano magari solo contorni e generalità di tutta quella “folle folla” di cosentini che dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra, popolavano i bracci di 9 strutture manicomiali. Erano soprattutto uomini (71) tra i 18 e i 33 anni, soldati o contadini, con grado d’istruzione elementare o analfabeti, internati coattamente per ordine della forza pubblica a causa di alienazioni mentali e forme depressive sulle quali solo in 14 casi viene attestato un reale miglioramento. Ma sono le malattie pregresse oppure contratte nelle strutture ospitanti le vere padrone della detenzione: perché in manicomio si entrava anche per quegli “strascichi” che febbre spagnola o malarica, tifo, broncopolmonite e sifilide lasciavano su menti e corpi segnati dalla miseria, ma addirittura per un semplice, occasionale o reiterato abuso di vino.
Oggi grazie al lavoro degli archivisti che dal 1999 si sono proposti di recuperare tutto «questo patrimonio sostanzialmente trascurato e che in molti luoghi correva un serio rischio di dispersione, quando non di distruzione», quelle che per anni sono state considerate “carte disonorevoli” diventano a tutti gli effetti beni culturali di un popolo costantemente alla ricerca delle proprie scomode e disonorevoli radici.