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IL REPORTAGE | Idomeni, l’Europa nel fango.

Dante Prato
Dante Prato
Aprile04/ 2016

(fotoservizio di Dante Prato e Laura Danzi)

Fango e filo spinato, puzza di fogna e migliaia di tende, la disperazione e il sorriso dei bambini.
È difficile raccontare quello che sta succedendo a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia: un avamposto di disumanità nel cuore dell’Europa, in quella penisola ellenica dove sono nati i principi della nostra civiltà.
Da Milano in volo fino a Salonicco. Un’ora di autobus e siamo a Policastro, il paesino più vicino al confine. Chiediamo informazioni e incontriamo immediatamente un gruppo di avvocati indipendenti, seduti al tavolino di un bar anonimo sulla polverosa strada principale. Sono disposti a darci uno strappo al campo, ma solo dopo esser passati dal locale comando della polizia per controllare le condizioni di alcuni minori che sono stati fermati e trattenuti. Entrano in due, mentre noi rimaniamo fuori a chiacchierare con gli altri. Il loro aspetto è lontanissimo dallo stereotipo dell’avvocato in giacca e cravatta. Felpa, pantaloni sporchi e scarpe infangate, il loro lavoro in Grecia è fondamentale: hanno allestito un information point nel mezzo del campo, nel quale offrono assistenza per le richieste d’asilo e i ricongiungimenti.

«I migranti – ci istruisce un anziano avvocato proveniente dall’Alaska – devono sapere che già in Grecia possono richiedere asilo, ma quasi nessuno è disposto a fermarsi, sono diretti verso la Germania e il Nord Europa».

Con loro raggiungiamo il confine. Lungo la strada provinciale, per oltre cinque chilometri, ci sono micro-accampamenti ovunque. Idomeni è poco più che una stazione ferroviaria. Un check point in aperta campagna. Campi incolti su cui corrono i binari che da oltre quaranta giorni sono occupati da centinaia di tende. Gli stessi binari – ci racconta una volontaria che ha lasciato i suoi bambini a Berlino per venire a dare una mano per qualche giorno – che i convogli carichi di ebrei percorrevano in direzione dei campi di concentramento. Il cancello è chiuso e nessuno può passare. Il confine è presidiato da decine di poliziotti e militari in assetto anti-sommossa pronti a reprimere qualsiasi tentativo di sfondamento. La disperazione è palese e quotidianamente centinaia di persone si riuniscono davanti a quella barriera che li separa dalla Macedonia come a voler sfidare la polizia.

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«Siamo bloccati da giorni – dice Hussain al microfono, mentre sui binari si improvvisa un’assemblea – non possiamo tornare indietro verso la Turchia, né tanto meno in Siria, ma non possiamo neppure continuare a vivere in questa situazione».

È troppo importante varcare quella soglia e continuare il proprio viaggio lungo la rotta balcanica.

A Idomeni sono circa dodicimila in fuga dalla guerra, provengono principalmente da Siria e Afghanistan e sognano una vita migliore e un futuro sereno in Europa. Più della metà sono minori. Bambini con le loro famiglie, ma anche tantissimi adolescenti in viaggio da soli. Dormono in migliaia di tende da campeggio disposte lungo i binari o nei campi e intervallate da piccoli spiazzi per il fuoco. Si brucia di tutto: legna, vestiti, plastica. Qualsiasi cosa può servire a scaldarsi, soprattutto nell’umidità della notte. L’aria è quasi irrespirabile, ma dopo poco ci si abitua. Inutile dire che le condizioni sanitarie sono del tutto preoccupanti: influenza, diarrea, ma anche infezioni, dermatiti e qualche caso di scabbia. Uno scenario preoccupante che, solo pochi giorni fa, ha portato le grandi organizzazioni umanitarie a minacciare di lasciare il campo a causa della mancanza dei requisiti necessari a garantire la dignità delle persone e i diritti umani.

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«Una situazione che – come ci riferisce uno dei tanti operatori di “Medici senza frontiere” – con l’arrivo del caldo sarà destinata ad aggravarsi».
Lungo le reti della ferrovia si susseguono i vestiti stesi ad asciugare, i fili sospesi corrono da una tenda all’altra. Dai volti delle madri trapela preoccupazione, mentre provano a riconquistare un po’ di normalità facendo i lavori domestici. Per i bambini, invece, è tutto un enorme parco giochi. Acqua stagnante nella quale sguazzare, enormi distese in cui far rotolare i palloni, fogli bianchi e colori. I volti sorridenti nascondono i problemi, i vestiti sporchi e la fame. I tempi nel campo sono scanditi dalle file. Le file per il cibo e per i vestiti, quelle per ricaricare il cellulare o per le medicine. Incolonnati, in maniera ordinata, si aspetta per ore.

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Una situazione drammatica che riflette il fallimento della gestione politica dei flussi migratori da parte dell’Unione Europea. Di un’Europa che risponde con il filo spinato e la polizia al bisogno di sopravvivenza di migliaia di persone e che ha scelto di pagare la Turchia affinché arresti con qualsiasi mezzo a disposizione l’arrivo di nuovi migranti.
Eppure a Idomeni c’è anche un’altra faccia dell’Europa. Quella dei tantissimi progetti autorganizzati, dei migliaia di volontari che in maniera del tutto autonoma hanno lasciato la quotidianità delle loro confortevoli vite per portare un aiuto. Quella dei ragazzi tedeschi che distribuiscono banane, dei volontari inglesi che organizzano giochi per bambini, dei ragazzi italiani di “Over the fortress” che hanno montato uno spazio che fornisce internet e elettricità, del progetto “Luck of birth” che ha allestito una cucina che prepara quattro mila pasti caldi al giorno.
Un’Europa che ha ancora delle speranze, perché a Idomeni non sono le tende dei migranti a sprofondare nel fango ma l’idea stessa di un continente che è ormai incapace di accogliere, trincerato a difesa dei suoi confini mentali ancor prima di quelli geografici.

Dante Prato
Dante Prato

Giornalista sociale e freelance per vocazione, quando penso ad una “testata” mi viene in mente solo quella di Zidane su Materazzi.

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