L. P. ha solo quarant’anni ma il fisico di un settantenne. E’ affetto da cachessia, una sorta di deperimento generale che da qualche mese gli impedisce di estrarre tannino dal legno di castagno nel grande opificio francese “P. Rej e Fils” di contrada Casali a Cosenza. Ha contratto la malaria terzana, una forma non perniciosa, al pari dell’operaio F. C., poco più giovane, addetto alla colorazione chimica delle “cementine” nel mattonificio Mancuso & Ferro, di contrada Castagna. Le dettagliate relazioni relazioni mediche ipotizzano che, proprio in quell’area, la presenza di pozze e piccoli bacini d’acque stagnanti e luride, prodotto delle molteplici lavorazioni industriali, abbiano acuito la presenza di anofeli infetti, zanzare che:
Spinte dal vento o dal bisogno di alimento, abbandonano le terre malariche e, a piccole tappe, guadagnano le località indenni, e colle loro punture disseminano colà il secolare morbo (dott. Vincenzo Scola)
Alla fine di luglio del 1909 L.P. ed F.C. si trovano a stazionare l’uno accanto all’altro nella lunga fila formatasi dinanzi al dispensario di contrada Caricchio affidato al dottor Antonio Rodi, uno dei medici della “task force” dispiegata nel Cosentino dalla direzione generale di sanità guidata dal piemontese Bartolomeo Gosio, protagonista poco più tardi della straordinaria guarigione di venti bambini tra i boschi della Sila (Quando i vaccini non c’erano ci pensava la Sila). Entrambi, L.P. ed F.C., erano allistati nell’apposito registro a stampa per la gestione dei malarici in atto curati. Nello stesso luogo, stretti al braccio delle madri, decine di bimbi ricevevano il solito confetto al chinino previamente triturato e somministrato in un cucchiaio di acqua zuccherata. Ma non bastava.
ARGINI ALLA MALARIA | Questo flagello scorazza una vasta plaga tuonò nel 1906 dalle colonne della Cronaca di Calabria l’ormai attempato direttore dell’Ospedale Felice Migliori. Tra le sue mani e quelle di Fraschitto Fiorini erano passati fino alla fine del secolo migliaia di malarizzati con una punta di 1 morto ogni 38 abitanti (426 decessi totali) nel quinquennio 1875-1879, su una popolazione di circa sedicimila abitanti. Nonostante i 6 quintali e mezzo di chinino di Stato consumati tra il 1900 e il 1906 e il nuovo delegato antimalarico per la provincia “scelto” nella persona del figlio del luminare bruzio, Domenico Migliori, la “dea febbre” tormentava ancora un territorio malarico comprendente circa un terzo dell’intera estensione comunale, con una zona “rossa” di particolare virulenza compresa tra Sant’Antonio degli Orti e Campagnano e attraversata dal Crati. Era necessaria un’azione capillare e definitiva.
La mappatura completa della città dal punto di vista della natura dei terreni, dei corsi d’acqua e delle pubbliche fontane – che proponiamo in un inedito documento dell’epoca – ad opera del dottor Vincenzo Scola, è il pilastro della terza delle nove diverse campagne antimalariche operate nel Cosentino tra il 1907 e il 1915. Terreni ed acque, uomini, bestie e colture venivano rigidamente annotati dai solerti medici-burocrati in appositi registri volti alla determinazione di tre distinte zone di malaria grave, lieve e lievissima.
Cinque dispensari, definiti dal professor Gosio, “piccoli istituti di cura disciplinata con indirizzo medico permanente”, erano i poli della lotta cosentina al “mal d’aere” allestiti in tutta fretta nel palazzo civico, in quello della milizia a Panebianco, nel pubblico mattatoio di Sant’Antonio agli Orti, in un locale fatiscente dell’Officina elettrica a Cardopiano e in un casolare di contrada Caricchio. Da qui partivano le indicazioni principali in materia d’igiene e profilassi nonché l’elargizioni di buoni gratuiti per il sostentamento dei malarici gravi e degli indigenti. L’obiettivo “mortalità zero” venne raggiunto nel 1915 quando, a coronamento della IX campagna antimalarica erano stati curati 27 malarici e profilassati 769 individui sani dei quali solo 15 si erano ammalati.
OPIFICI ED ECOMOSTRI | Ma il vero argine alla malaria era stato eretto nelle grandi fabbriche ed opifici del progresso, muscoli della Cosenza di ieri. Posti sul limitare del centro di ieri in un insano mix di paludismo e sottosviluppo, i mattonifici di Carlo Sicoli ed Emilio Broccolo, situati rispettivamente a Panebianco e contrada Muoio, l’opificio tessile di Luciano Regonesi, la segheria Raffaele Piro in contrada Castagna e, poco più in là, il mattonificio Mancuso Luigi e C. (poi Mancuso & Ferro), insieme al tanninificio francese di contrada Casali, ospitavano nel 1909 circa mezzo migliaio di tra operai e braccianti avventizi affetti da malaria cronica. Dalle loro braccia dipendeva il futuro industriale della città. Così, per effetto della legge del 19 maggio 1904, gli stessi opifici furono attrezzati per la somministrazione del chinino di Stato: poggiandosi al vicino dispensario che ne seguiva le storie cliniche come nel caso di L. P. ed F.C., ogni titolare di opificio o imprenditore di lavori veniva obbligato alla somministrazione in loco. A fine epidemia il Comune sarebbe stato risarcito di toto della cifra investita per l’approvvigionamento del prezioso farmaco.
Guariti dalla malaria ma estromessi in pochi decenni dalle orbite del progresso, oggi questi enormi reperti di archeologia industriale, assurti a pieno titolo al rango di ecomostri, reclamano diritto di cittadinanza ma soprattutto dignità. Dignità per chi da decenni è stato costretto a vivervi accanto. Che significa bonifica, che significa risoluzione delle assurde controversie burocratiche che ne impediscono l’alienazione. A pochi metri dal boulevard della movida, appena oltre le barriere dei vecchi opifici cosentini tuona un presente segnato da eternit e ferraglia, solitudini e tumori.
…continua…
Per approfondire:
V. Scola, Zona malarica e malaria nel comune di Cosenza
F. Perris, F. Fiorini, Notizie statistiche in relazione alla Igiene del Comune di Cosenza, per il quinquennio 1875-79
E. Stancati, Cosenza e la sua provincia dall’Unità al Fascismo
R. Colapietra, Città e territorio nel Mezzogiorno fra ‘800 e ‘900