Ammazzare la vita o farsi ammazzare dalla vita. Sanno tutti qual è stata la scelta di Alessandro Bozzo, 40 anni, giornalista come sanno esserlo pochi. Alle Idi di Marzo dell’anno numero 2013 ha preso congedo dalla redazione centrale di Calabria Ora come non faceva mai, si è chiuso in casa sua a Marano Marchesato e si è sparato un colpo a bruciapelo con la beretta semiautomatica 98fs calibro 9×21 legalmente detenuta. Ha lasciato tre pagine ai suoi cari per spiegare il gesto. Sul corpo, come da prassi, è stato disposto l’esame autoptico.
Lui, rapace cronista di Donnici, le scriveva esattamente così. E così voleva che le scrivessimo. Poche storie, ti faceva sedere accanto a lui e falcidiava senza remore, con tocchi sulla tastiera pronunciati come echi di guerra, tutta quella roba da mammolette che non aveva a che fare con la notizia. Diceva proprio così.
– “Frasi corte e pochi aggettivi, cazzo”.
Il silenzio era interrotto solo da commenti capaci di farti sprofondare un metro ad ogni risatina dei colleghi. Poi si alzava per andare a fumare, soddisfatto. Aveva praticamente riscritto di sana pianta la cosa. Infine si girava già con la sigaretta pendula dalla bocca, ti dava una pacca e diceva:
– “Hai fatto un buon lavoro”.
Gridava come un pazzo se ti scappava il racconto in prima persona e forse perché ora vorrei che lo facesse per coprire questo silenzio che scrivo così. Che io scrivo. Perché di noi restano le parole. Questo di una lunga serie è il suo ultimo insegnamento. Le strampalate espressioni da film western continuano a rimbombare su quei pezzi di carta, come se quella voce inconfondibile nel nulla dei perché riuscisse a ricoprire anche il sordo rumore dello sparo. Le parole sono forti. Estranee all’anagrafe quelle con cui chiamava le vite degli altri; nomignoli capaci di reinventare il ruolo svolto da ognuno nella farsa dell’esistenza. A ripassarli ti pare di essere nell’ambientazione di uno dei romanzi che adorava citare. Per le qualità che dimostrava ogni fottuto giorno al lavoro Alessandro avrebbe meritato di commentare le semifinali di Wimbledon, o comunque di ricoprire i più alti ruoli all’interno dei giornali in cui ha lavorato con abnegazione unica, ma – lo sanno tutti – non è andata così.
L’impatto del giornalismo sulla società, soprattutto a latitudini meridiane, è in profonda crisi perché i molti pavidi si sono imposti sui pochi Bozzo. Lui sapeva benissimo che non esistono poteri buoni e sapeva anche che la libertà di stampa è un gioco lento e buio, fatto di partite perse, di censure d’ogni tipo. Ogni giorno, santo o dannato che fosse, lasciava agli altri le luci della ribalta e si dedicava con una concentrazione bizzarra quanto inviolabile a quelle del suo monitor. Questo fino a quando non mandava alle stampe le sue pagine, che a volte lo tradivano e si chiudevano da sole, facendolo smadonnare contro i tecnici. Quando finiva, a tarda sera, soddisfatto alzava a palla il volume di una videoclip musicale di Youtube per poi bitumare il primo che gli capitasse a tiro. Odio e amore, l’oscura passione per il suo lavoro lo faceva sentire come l’Andrè Agassi di Open, l’ultimo libro di cui abbiamo discusso.
Ha sempre lottato per essere libero nella stampa. In anni lunghissimi. Nei giorni dell’ennesimo disastro, dopo una grossa notizia che provarono a censurare dalla Regione e un susseguente truculento braccio di ferro con l’editore, la spina dorsale della redazione, direttore compreso, si era liquefatta in una lettera di dimissioni. Per i colleghi più giovani in quelle ore di ammaraggio impersonò l’uomo della salvezza; ma lui subito si affrettò a spiegarci che era ormai tramontata un’epoca di lotta collettiva, che da quel momento in poi saremmo stati ognuno da solo contro i mercanti di tappeti. Come sigarette che bruciano, pendevamo dalle sue labbra e, nel caso a qualcuno fosse lo stesso sfuggito il concetto, fu pronto a rimarcarlo: quei tappeti eravamo noi e il mercante era il più tremendo che potesse capitarci.
Amava la politica, ma odiava potenti e arroganti. Aveva l’amicizia e la stima di molti politici, ma il suo lavoro non è stato amico di nessuno di loro. Il giorno che morì prematuramente il già presidente della Provincia di Cosenza Antonio Acri, raccontò di quando davanti a tutti venne da lui indicato prima di queste parole:
– “Attenti a questo qui, lo considero un amico, ma per dare una notizia non guarderebbe in faccia nemmeno alla madre”.
Alessandro Bozzo rispose a voce alta che quello era il più bel complimento che gli avessero mai fatto. Teneva le sue idee politiche lontane dal suo lavoro, ma la sua coscienza civile c’era sempre. Sapeva farsi rispettare e quando non poteva scrivere una notizia in un pezzo cercava di infilarcela diversamente, con un ghigno beffardo di soddisfazione. Un esempio ne sia la sera in cui fece quella matta copertina, sapendo che non l’avrebbero mai fatta passare. Si era organizzata in Comune la visione collettiva dell’insediamento di Obama, una cosa obiettivamente pleonastica. Mise a tutta pagina l’ottima foto che ritraeva il primo cittadino seduto di spalle nella sala deserta, mentre sullo sfondo compariva il maxischermo con l’immagine di Barack. In basso il titolone, in carattere Georgia, cubitale sullo stile de Il Manifesto:
“CAZZONE AMERICANO”.
Bozzo era capace di far cadere una giunta con una didascalia ironica, diceva:
– “Prendili per il culo i potenti, falli incazzare e litigare fra loro così domani abbiamo un ritorno, e se ti rompono il cazzo dai sempre la colpa a me. Poi se mi chiamano chiaramente gli dico che sei un coglione”.
Poliziotto buono poliziotto cattivo, ci giocava anche con se stesso. Nelle maglie della Procura di Castrovillari era stato messo alle strette da uno scorbutico magistrato insieme a Luigi Brindisi, suo giovanissimo pupillo. Doveva dare conto di una telefonata fatta sul cellulare del piemme per verificare una notizia, erano gli anni de La Provincia Cosentina dei record, quando lo mandarono per un praticantato nella città dormiente. Era un’opportunità che viveva come un esilio, visto quante volte aveva pestato i piedi ai potenti animali politici della infida foresta bruzia. Quella sera disse male. Sbagliarono numero, beccando il Procuratore della Repubblica sbagliato:
– “Chi parla? Questo è un numero di servizio di conoscenza esclusiva alle forze dell’ordine in servizio, voglio sapere come l’avete avuto, altrimenti sappiate che su questa storia apriremo un fascicolo”.
Così gridò ai due ragazzi di stampa l’uomo di legge, chiedendo le loro generalità.
– “Bbi, bbi, o, zeta, zeta, o. Bo-zzo. Buonanotte”.
E chiuse il telefono senza scomporsi. Proprio come quell’altra volta in cui il cazziatone dovettero sorbirlo da un altro Procuratore nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Finalmente interrotto il diluvio verbale, con il giudice convocato nella stanza del suo superiore, Luigiuzzu indirizzò le antenne, pronto a recepire il commento dell’amico e maestro sul da farsi:
– “Che cazzo fai lì impalato, entra e fatti uno squillo dal suo telefono così ci prendiamo anche questo numero. Io ti faccio il palo e ti avverto se torna!”.
Inarrivabile. In quindici anni di carriera circa venti fra querele e citazioni. Che io sappia non è mai stato condannato, neanche quella volta che un politico gli chiese 250mila euro per un suo pezzo su finanziamenti illeciti. Me lo raccontò quando gli dissi che l’assessore che aveva fatto avere lo stipendio da vigile urbano al nipote meccanico me ne chiese 180mila per un titolo che lo accostava alla parola Parentopoli. In caso di condanna avremmo saldato il conto in dodici vite di lavoro, al patto di sommare gli stipendi, dicevamo stemperando.
Se era in vena iniziava a parlare di vino, razze di uccelli e distese del Canada per moltissimo tempo, senza farti fiatare. Quando invece c’era da andare sul posto il silenzio della battaglia attanagliava il suo spirito guerriero. Era il primo ad alzarsi dalla scrivania, veniva posseduto da un demone. Come quella volta che si fiondò nelle campagne di Morano intontite dalla neve, o quell’altra volta alla partita di calcio con ammazzatina.
Ogni sconfitta lo feriva, ma ogni vittoria lo esaltava. Quando leggeva su altri giornali le notizie che non ci avevano fatto scrivere faceva un plateale gesto di disappunto, ma in fondo si vedeva che era contento lo stesso; lo riteneva un pareggio, perché il suo unico padrone era la notizia. Ricordo che andò così quando arrivò l’ordine di lasciar stare la storia della Curva Nord dello stadio di Cosenza interamente dedicata al boss uscito dal 41bis. Dopo l’esame da professionista lo cacciarono, ma poi arrivò il nuovo giornale, e nei primi tempi, molto prima di quella domenica di mafia e di sport, di vittoria ne ottenemmo qualcuna.
Un pomeriggio arrivai in redazione con i documenti che dimostravano stranezze negli appalti di funerali e tumulazioni dei defunti ospiti di una clinica privata della Sibaritide convenzionata con la Regione Calabria. Non mi era ancora concesso di partecipare alle riunioni, così aspettai su uno squallido divanetto rosso e nero il responso. Uscì per primo, mi diede un calcio e mi schernì, contento perché il fottuto presilano aveva spaccato con una notizia cazzuta. Disse proprio così.
– “Comunque il tuo pezzo migliore resterà sempre quello del prete che se l’è svignata”.
L’occhiolino diceva tutto. La notizia del racket del caro estinto non sarebbe mai uscita, mentre quella della misteriosa fuga del parroco era la prima vittoria che riuscimmo a fare insieme. Era un’altra domenica pomeriggio, lo telefonai direttamente dalla casa del prelato che non si presentò a messa, prima ancora che arrivassero i carabinieri per le verifiche. Mi parve di capire che era a pranzo con ospiti e che si chiuse in bagno ad esultare perché quella notizia l’avremmo avuta solo noi. In redazione chiamarono in tanti fino alla notte, dalla sede vescovile e altro ancora. Per qualche motivo che non capivo bene, volevano a tutti i costi che non la pubblicassimo e provarono in ogni modo a fermarci. Al cellulare un funzionario delle forze dell’ordine mi minacciò in modo nemmeno tanto velato, mi disse che mi avrebbe reso la vita impossibile – e così per qualche settimana fece – ma il direttore intervenne a nostra difesa, dandoci la forza di andare fino in fondo. Il giorno dopo venne giù l’arco celeste. Pietrificato, senza riuscire a dire una parola per ore, mi trascinai tremolante in redazione. Poi arrivò Bozzo, che come un gringo già dal parcheggio gridava parolacce di giubilo con il giornale in mano come fosse un Winchester. Scoppiammo tutti a ridere.
I giorni continuano a sovrapporsi nel ricordo, confusi e infelici. In uno c’è la Digos in redazione a cercare nei cassetti per censurare la pubblicazione della relazione d’accesso di un prefetto al Asl di Locri, in un altro c’è la lettera gialla sulla sua tastiera bianca. Se non la smetteva con la politica e con Cassano, gli avrebbero fatto saltare la testa, a lui e all’editore. Così c’era scritto. Si girò, ce la fece leggere, ci scherzò su e continuò a lavorare. Il giorno dopo tornò preoccupato, ma mentre i colleghi perdevano delle ore a rimpastare le dichiarazioni di solidarietà che arrivavano alla redazione, lui in un attimo le sostituiva con una riga:
“Diffusa solidarietà dal mondo della politica”.
Oggi farebbe lo stesso, non accetterebbe ipocrisie da parte di nessuno. Questa sua visione del mestiere emerge già dagli scritti giovanili su un giornale di quartiere che si chiamava Risvegli. C’è un articolo particolare del 1993, brillante quanto sconosciuto, su Kafka, nel quale Bozzo usando la prima persona (tiè!) analizza il rapporto fra le parole e il lettore. Inizia così:
“Io somiglio a quei selvaggi di cui si dice che non desiderino altro che morire, o meglio, non hanno nemmeno più questo desiderio, ma è la morte che ha desiderio di loro e loro le si abbandonano, anzi non le si abbandonano nemmeno, ma cadono semplicemente nelle sabbie e non si rialzano più”.
Sosteneva quindi che gli scritti non si muovono verso il lettore per comunicargli un messaggio o imporgli un senso, ma esistono nella ricerca della propria “morte”, che significa azione. Quando trovano un lettore che ha “desiderio” verso di loro, semplicemente gli si abbandonano, come in un sogno, o qualcosa del genere. Scrisse proprio così. Basterebbe questo stralcio a spiegare perché il suo esempio è da collocare accanto a quello dei migliori nel giornalismo meridionale, ma odiava i complimenti retorici, figuriamoci postumi. Se te ne voleva fare uno, al massimo ti diceva che eri un duro. Altrimenti eri un filisteo. Del resto i capelli lunghi che Alessandro Bozzo amava intrecciare fra le dita erano un segno distintivo al pari del mito di Sansone. L’imbattibile eroe dalla forza prodigiosa, astuto con gli uomini quanto ingenuo con le donne, che comprese come quello di far crollare il tempio fosse l’unico modo per vendicarsi dei nemici, anche a costo della propria vita.
Sansone è morto, a morte i filistei.
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Tratto da “Sacro Fuoco, storie di libertà di stampa”