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IL REPORTAGE | Quella rosa sulla cicatrice Bosnia

Rita Sanzi
Rita Sanzi
Settembre27/ 2016

D’inverno cade sempre la neve, nel resto dell’anno piove quasi ogni giorno. Il sole si vede poco, la pace di meno. Questo pezzo di terra fino al 1992 componeva il mosaico Jugoslavia,  oggi la chiamano Bosnia ed Erzegovina. Ma potrebbe durare poco; ieri il 99 per cento dell’etnìa serba ha scelto il mantenimento della festa nazionale il 9 gennaio, un fatto che secondo il governo è una provocazione secessionista senza precedenti.

Quasi al centro del Paese c’è Sarajevo, capitale, “Gerusalemme d’Europa” e “meeting of cultures” come recita una scritta incisa su una delle strade principali della città. Su quella strada passano i piedi di donne integralmente velate e di uomini biondi, di imam e rabbini, sacerdoti cattolici, di ragazze italiane o francesi con i jeans strappati ad altezza del ginocchio. Vivono insieme ogni giorno, affrontando le conseguenze quotidiane e gli strascichi di un passato macchiato di sangue, componenti di tre diverse etnie: croati cattolici, serbi ortodossi e bosniacchi musulmani. La Bosnia ed Erzegovina fa i conti ancora adesso con tutto ciò che è stato; cerca di ripartire senza dimenticare il dolore subìto: i palazzi e i segnali stradali mostrano ancora i buchi dei proiettili. È uno Stato che ha seppellito troppi morti in fosse comuni, ha pianto troppe donne stuprate, ha assistito impotente alla distruzione di troppe case.

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A circondare Sarajevo, fino ad arrivare pian piano ai confini nazionali, piccole realtà di montagna arretrate e spesso protagoniste del massacro degli anni ‘90. Tra le più colpite, a 11 km dal confine serbo, c’è Cerska, un piccolo villagio di pochi abitanti (circa 1500) della zona montuosa orientale bosniaco- erzegovese. Durante gli anni del conflitto fu parte dell’enclave di Srebrenica e fu tra i primi paesi ad essere devastato dai soldati serbi guidati da Mladic. Per un attimo i giorni della guerra sembrano essere lontani ma invece tutto, lì, ricorda ancora i giorni che sono stati e che non dovranno più essere. Poche case di mattoni a vista molto distanti tra loro, mezzi di trasporto e di comunicazione quasi assenti: internet è un lusso, i bambini vanno a scuola (due le scuole elementari della zona) a piedi anche dopo le nevicate dei mesi invernali.

Nuclei familiari che hanno ereditato e si trascinano dietro un dolore enorme vissuto o raccontato. Arrancano a fatica in esistenze semplici con la loro povertà in case mai terminate: un orto sul retro, qualche gallina, un cane da guardia, abiti ricevuti dalle organizzazioni e fondazioni europee che operano sul territorio.

È in una di queste case che vive la madre di Samra, dodicenne con un tumore al cervello e crisi epilettiche. Con la piccola e sua madre vivono i due figli più grandi e il marito. Tutti gli uomini di casa sono disoccupati ma vorrebbero, un giorno, aprire un negozio di articoli tessili. Entrano dalla porta d’ingresso con delle pannocchie in mano e con addosso tre magliette identiche della Lazio (dono di una famiglia di Ostia che li aiuta a distanza). Tre le stanze in cui vivono: una cucina, un bagno con la doccia rotta, una camera da letto grande con un divano e i materassi impilati che la notte vengono poi distribuiti sul pavimento.

Non c’è spazio per i letti nelle case di Cerska. A venti minuti di distanza abita Elvira. Tante sono le lapidi disseminate lungo il percorso che separa le case. Lapidi singole o raggruppate, a volte cimiteri nel verde, tra gli alberi. Elvira ha due bambine, il marito è scomparso a causa di un infarto già da un paio di anni. Piange mentre lo racconta e fissa un quadro con una moschea in bianco e nero incorniciata e appesa su una piccola poltrona in finta pelle. Racconta con imbarazzo quanto è difficile fare la spesa per i pasti. Mentre lo dice lo sguardo si sposta sui fiori che ha appena raccolto e sistemato sul tavolino della cucina.

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Una ragazza di Cerska (FOTO Camilla Cattabriga)
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La bambina vive con le zie, la madre e altri cinque bambini nelle montagne di Cerska. (FOTO Camilla Cattabriga)
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La solitudine di un giovane nella sua casa di Cerska (FOTO di Camilla Cattabriga)

Altri chilometri di salite e altre lapidi bianche per arrivare da Hava: sessant’anni, un figlio morto perché ferito e non curato per mancanza del denaro necessario. La sua abitazione è senza tetto da quasi quindici anni. Un coniglio in gabbia in un angolo di quella che è praticamente una capanna, un materasso sporco nell’angolo opposto con qualche coperta vecchia gettata a caso e proprio lì accanto un fornellino elettrico.

La Bosnia ed Erzegovina oggi è in parte (in gran parte) ancora questa.

È stata ed è ancora la vernice rossa gettata nei solchi lasciati dalle granate che hanno distrutto. Quella vernice è diventata un fiore che copre la ferita, una rosa che ingentilisce la cicatrice. Sono le stelle, tantissime, che riempiono il cielo. È il contadino che ringrazia della visita staccando delle pere dal suo albero, la moglie che porge  – quasi vergognandosene  – una busta di prugne (e mostra anche come sbucciarle). L’odore di fumo e a volte di sporco che entra nelle narici quando si varcano gli usci delle case. I denti rovinati o mancanti, anche nelle bocche dei bambini, che compongono sorrisi spenti, storti, vuoti. Sono le mani di una vedova che sistema in un vassoio dei biscotti nonostante abbia appena smesso di piangere per dei debiti che non sa come saldare. È l’abbraccio grato di chi vive col niente. Sono gli occhi persi nel vuoto e gli spasmi di un ragazzo ormai perso nella sua malattia a causa di un intervento fallito quando aveva solo sei anni. Sono i piedi scalzi che camminano sui tappeti della case dei bosniaco-erzegovesi di fede islamica e le orecchie che ascoltano il richiamo alla preghiera che proviene dalla moschea. Sono le braccia di altri sulla schiena mentre si ballano in cerchio danze del posto, danze veloci e travolgenti. È la ruga che attraversa la fronte di donne e uomini sui cui volti il tempo ha avuto troppa fretta di passare e scavare. È la certezza che arriva dritta nello stomaco appena te ne vai che di Bosnia ed Erzegovina bisogna continuare ad occuparsi, che comunque si chiamino in futuro, qui si deve andare e poi tornare. Si deve tornare per i gesti, per il dolore, per la rinascita di Samra e di sua madre, di Hava, di Elvira e di ogni singola persona che tra quelle montagne continua a soffrire.

Rita Sanzi
Rita Sanzi

Scrittura creativa con l'animo da nomade: emigrata dalla Calabria a Napoli, poi Roma, poi Torino. Amo il mare, i viaggi in treno, le mostre di fotografia, le storie e i libri, i tramonti e le nuvole, le lasagne e i dolci al cioccolato.