Dai rifiuti posson nascere anche le scuole. Francesco Fassina è un giovane ricercatore nato a Genova. A Siena si è laureato in Archeologia, ed era in Svezia a studiare Ecologia umana quando ha deciso di scrivere alla “Tagma”, l’organizzazione no profit che a Jaureguiberry, sulla costiera uruguaiana, ha realizzato la prima Escuela Sustentable.
Una scuola unica al mondo, costruita utilizzando pneumatici, bottiglie di vetro e di plastica, cartone e lattine, ma soprattutto impastando esperienze da tutto il mondo in un progetto educativo e culturale unico nel suo genere. Una struttura pubblica perfettamente sicura, nata per decisione del governo uruguayano (che ha messo il 10% dei fondi, il resto viene da finanziatori privati come la Nevex, che potrà detrarlo dalle tasse dovute allo Stato che con questo sistema favorisce la partecipazione privata nei progetti pubblici) in una zona economicamente depressa e fino a quel momento povera di beni comuni. Un’utopia di quelle che nell’era del presidente povero Pepe Mujica possono diventare realtà. L’escuela sfrutta le risorse rinnovabili per auto sostenersi, raccoglie le acque piovane, i raggi del sole e ricicla i rifiuti. E’ una creatura che respira, e i bambini sono coinvolti in tutto e per tutto nel suo ciclo di vita.
“L’altro giorno è successa una cosa incredibile”, racconta via Skype Francesco, a oggi è l’unico membro non uruguaiano dell’organizzazione. “I bambini nel giorno aperto alle visite ci hanno sostituito nello spiegare ai visitatori come funziona la scuola. Sono arrivati da casa con dei sacchetti pieni di bottiglie di plastica, di semi e di rifiuti organici dicendoci che erano per l’istituto”. Francesco si occupa di educazione per la Tagma, fra poco tornerà a casa per passare le feste natalizie in Italia, il progetto è arrivato ad una prima fase di autosufficienza ed è naturale tempo di bilanci. “Sentono ormai loro questa scuola, e quello che stanno imparando in classe lo portano a casa, rendendo le famiglie e quindi la comunità partecipe della vita dell’istituto. Fra l’altro le mamme e le maestre ci dicono che ormai non fanno più i capricci quando c’è da mangiare frutta e verdura: seguendo le varie fasi della vita delle piante i bambini sentono molto più vicini i prodotti della terra. Sono risultati che in così pochi mesi non ci aspettavamo”.
Chiamarle aule potrebbe però non rendere l’idea; gli ambienti della scuola sono dei veri e propri orti giardini, dove le materie che si studiano in tutte le altre scuole del paese diventano pratica. Negli orari extrascolastici la comunità organizza anche corsi di yoga, cine-proiezioni e tante altre attività, finanziate da feste di quartiere e collette. Chiunque abbia a che fare con la struttura partecipa al processo di vita dell’istituto che avviene seguendo i sei principi ecologici fondamentali. L’edificio è di 270 metri quadrati e si apre a nord, massimizzando la luce e l’energia solare attraverso un corridoio vetrata che funge da collegamento fra le tre classi di età mista, secondo quello che è il cosiddetto “modello rurale” in Uruguay: una è quella dell’asilo con i bambini dai tre ai cinque anni, un’altra classe con prima seconda e terza elementare e l’ultima che arriva fino alla sesta elementare. La facciata è dominata dal vetro e dal legno e il corridoio consente la produzione di cibo attraverso un giardino interno. La generazione di energia elettrica proviene da pannelli fotovoltaici e immagazzinata in un banco di batterie. A sud, est, e ovest, l’edificio è chiuso con un terrapieno, un muro di contenimento che sfrutta le proprietà termiche della terra. Questa strategia, ci spiega l’educatore italiano, permette l’equilibrio termico dell’edificio durante tutto l’anno, provocando attraverso condotti di ventilazione la circolazione trasversale di aria fresca in estate. In inverno invece accumula il calore causato dall’effetto serra del corridoio settentrionale e riscalda la scuola; e la temperatura della scuola è intorno ai 20 gradi tutto l’anno, a dispetto delle condizioni atmosferiche esterne.
“Attualmente”, riflette Fassina, “la scuola produce più energia di quanto consuma e l’idea futura è di far sì che questo surplus possa essere immesso nella rete della comunità e permettere anche un sostentamento economico dell’istituto”. Oltre ad essere autonomi nel loro consumo di energia e promuovere la produzione di alimenti biologici all’interno, nella scuola sostenibile utilizzano l’acqua piovana per bere, lavarsi le mani, irrigare i giardini e riempire i serbatoi, con un processo di depurazione delle acque nere realizzato anche esso con materiali di recupero.
Tutto iniziò nel 2011, quando Martin Esposito, coordinatore generale del progetto, vide il documentario “Garbage Warrior” sulla vita del visionario architetto americano Michael Reynolds. Sotto la sua bislacca egida hanno partecipato alla costruzione della scuola circa 200 persone, volontari e studenti provenienti da Uruguay e altri trenta paesi e durante i lavori in parallelo è stata animata un’accademia dove l’organizzazione guidata da Reynolds ha potuto addestrare 100 studenti provenienti da cinque continenti per sviluppare l’approccio costruttivo definito “Earthship”. L’idea è quella di vedere queste “navi della terra” attraccare presto in altri posti dell’Uruguay e dell’America Latina, e il sogno di Francesco è poterla vedere un giorno anche nel suo paese, l’Italia.
Dove intanto la notizia è che nelle scuole costruite con i rifiuti industriali si è tornato a far lezione. Ci sono voluti cinque anni perché la Cassazione ponesse la parola fine al processo scaturito dall’inchiesta “Black Mountain”, prosciogliendo 45 persone dall’accusa di disastro ambientale e dando quindi ragione alle perizie che, contrariamente alle ipotesi della procura, sostengono la “non pericolosità” del conglomerato idraulico catalizzato (Cic), il materiale ricavato dagli scarti industriali dall’Ilva di Taranto e dalla Pertusola di Crotone, utilizzato per la costruzione di ben 18 scuole nel Sud Italia. Mentre milioni di soldi pubblici a queste latitudini sono sfumati in anni di inchieste, varianti e colate di cemento armato, protocolli sanitari campionamenti e bonifiche, in Uruguay in sole sette settimane e con soli 300mila dollari dimostravano che un altro mondo è davvero possibile.
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