AGGIORNAMENTO | (31 gen.) Gli ordini di The Donald non si discutono, proprio come nel suo reality show. La ministra ad interim della Giustizia degli Stati Uniti d’America Sally Yates è stata rimossa dall’incarico dopo aver ordinato ai legali del suo dipartimento di non difendere il decreto sull’immigrazione in tribunale. “Ha tradito il dipartimento di Giustizia rifiutando di attuare un ordine messo a punto per difendere i cittadini americani”, ha affermato la Casa Bianca. Al suo posto Donald Trump ha nominato Dana Boente, procuratore per il distretto orientale della Virginia, che ha subito affermato di essere pronta ad applicare il decreto immigrazione e, riferisce una nota, ha dato istruzioni agli uomini e alle donne del dipartimento della giustizia “di fare il loro dovere e di difendere gli ordini del nostro presidente”.
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Proviamo a riassumere: insieme a decine di migliaia di cittadini assiepati nelle piazze di mezzo mondo, l’Onu l’ha definito “illegale e meschino”, i procuratori di 16 stati lo hanno bollato come incostituzionale, la commissione europea se n’è dissociata apertamente e persino il dollaro e le grandi corporazioni hanno dimostrato di non gradirlo. Eppure quello svitato di Donald Trump non sta facendo altro che applicare una versione annacquata del suo isterico programma elettorale. Andiamo a ritroso. Già pochi giorni dopo l’elezione il Telegraph faceva notare che l’idea di vietare ai musulmani di entrare negli Stati Uniti, annunciata in pubblico dal miliardario dopo un attentato, era stata rimossa dal sito web della campagna di Donald Trump. Un intento che oggi ritroviamo in linea con l’atto con cui ha concluso la sua prima settimana da presidente, stoppando a tempo indeterminato gli ingressi dalla Siria, bloccando per 120 giorni i programmi per rifugiati e per 90 giorni l’ingresso negli Usa di cittadini di sei Paesi a maggioranza islamica: Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan e Yemen.
I tanto odiati media l’hanno ribattezzato “Muslim Ban”, misure anti-terrorismo che superano di gran lunga quelle applicate all’indomani dell’11/9 e che fanno discutere anche perché risultano arbitrarie, contro cittadini di paesi che negli ultimi 20 anni non sono mai risultati pericolosi per il suolo americano. Nessuno dei circa 20 atti di terrorismo di matrice islamica compiuti negli Usa dal 2001 a oggi ha infatti coinvolto rifugiati o cittadini di quei sette stati.
Interessi commerciali che non riguardano naturalmente solo il cerchio di Trump, ma gran parte delle elités miliardarie che ne hanno appoggiato un’elezione presentata agli americani delusi come anti-establishment. Insomma, un provvedimento fatto a misura, che colpisce paesi dove non ci sono troppi interessi da penalizzare e offre, servito insieme al muro per il confine meridionale, una prelibatezza alla brontolante pancia dello Zio Sam. In attesa di sapere se e come verrà digerito, sappiamo intanto che ai confini settentrionali il vicino premier Justin Trudeau ha fatto sapere al mondo che nel vicino Canada i rifugiati saranno sempre benvenuti. La risposta non si è fatta attendere: in serata in una moschea a Qebec City hanno aperto il fuoco sulla folla riunita in preghiera, riuscendo ad uccidere otto persone. Secondo le testimonianze riportate dai media, l’attentatore, individuato in uno studente universitario con gli occhi chiari e fan sui social di Trump e LePen, avrebbe inneggiato ad Allah prima di sparare. Accertata la morte di due algerini, di un marocchino, di un tunisino e di due cittadini di un altro paese africano, di età compresa tra 35 e 70 anni.
Ancora una volta nella narrazione e nell’equazione fra immigrati e terroristi più di qualcosa non torna.