Suoni musica di fanteria, i pellerossa sono stati ancora una volta cacciati dalle giubbe blu. I nativi americani Sioux che per mesi hanno protestato contro il mega oleodotto in North Dakota sono stati sgomberati. Secondo le notizie riportate dal governo federale, sono dieci gli arresti fra i dimostranti; durante le operazioni della polizia al campo c’è stata un’esplosione e un bambino di sette anni e una ragazza di diciassette sono stati portati con l’ambulanza in ospedale a causa delle ustioni riportate. La ragazza sarebbe in condizioni serie.
Il viso pallido ha ancora una volta parlato con lingua biforcuta. Il governatore del North Dakota, Doug Burgum, Repubblicano, ha detto in una conferenza che lo sgombero è andato «molto bene» e che da oggi, giovedì 23 febbraio, il governo avrà libero accesso alla zona. Lo sgombero è stato deciso dopo la firma di un ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, intenzionato a far ripartire ad ogni costo i lavori del “Dakota Access”. A nulla sono serviti gli appelli provenuti da ogni parte del mondo, inascoltata persino la preghiera di Papa Francesco che aveva esortato i governi a «conciliare il diritto allo sviluppo, compreso quello sociale e culturale, come la tutela delle caratteristiche proprie degli indigeni e dei loro territori». Il Pontefice lo aveva dichiarato in occasione dell’incontro in Vaticano con alcune delegazioni indigene nell’ambito della quarantesima sessione del Consiglio dei Governatori del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad).
Il Dakota Access Pipeline è un oleodotto sotterraneo quasi ultimato, e dovrebbe servire a portare il greggio dalla Bakken Formation – una zona al confine tra Montana e North Dakota, due stati degli Stati Uniti che confinano con il Canada – fino all’Illinois, attraversando il South Dakota e l’Iowa. Ha avuto un costo complessivo di 3,7 miliardi di dollari, Barack Obama aveva accettato di far cambiare il percorso all’oleodotto, accontentando i Sioux che non volevano passasse sotto il letto del fiume Missouri. Lo United States Army Corps of Engineers (USACE), la sezione dell’esercito americano specializzata in ingegneria e progettazione e che si è occupata dell’oleodotto, aveva detto che avrebbe cercato un percorso alternativo ma l’amministrazione Trump ha cancellato il piano subito dopo il suo insediamento, permettendo la ripresa dei lavori.
“Io sono un uomo rosso. Se il Grande Spirito avesse voluto che io fossi un uomo bianco mi avrebbe fatto in quel modo prima di tutto. Nel vostro cuore ha messo i vostri desideri e piani, nel mio cuore ha messo altri desideri diversi. Ogni uomo è buono ai suoi occhi. Non è necessario per le aquile essere corvi. Siamo poveri … ma siamo liberi. Nessun uomo bianco controlla i nostri passi. Se dobbiamo morire … moriamo difendendo i nostri diritti.”
Toro Seduto, Sioux Hunkpapa
Durante la campagna elettorale, si è scoperto che Donald Trump ha investito quasi un milione di dollari nella Energy Transfer Crude Oil, la società dietro al progetto. E la stessa la società aveva poi donato più di 100mila dollari alla sua campagna elettorale e altri 67mila al Partito Repubblicano. Il neo presidente Usa aveva annullato la risoluzione Obama che accoglieva le richieste dei nativi: Trump ha disposto che l’oleodotto da 3,8 miliardi di dollari si farà, con buona pace delle resistenze locali. Le tribù Sioux locali hanno lottato disarmati per mesi contro la costruzione dell’enorme oleodotto, difendendo le loro acque dall’inquinamento e i territori sacri ai loro antenati dalla profanazione, ma alla fine si sono arresi.
Gli interessi dell’uomo bianco, insomma, hanno vinto. Interessi multinazionali, compresi quegli italiani. La più grande banca del nostro paese infatti, Intesa Sanpaolo, farebbe parte del consorzio di finanziatori di questo controverso progetto. Greenpeace Italia ha scritto una lettera ufficiale ad Intesa Sanpaolo per chiedere se ha intenzione di continuare a finanziare la distruzione delle terre dei Sioux, ma ancora nessuna risposta è arrivata.