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l’intervista || Lou Castel ha ancora i pugni chiusi

Carmen Baffi
Carmen Baffi
Marzo06/ 2017

Quando la vita inizia a beffarti è difficile darle fiducia. Se poi sei Lou Castel, il discorso cambia. Le prospettive e le circostanze cambiano, si complicano e nella maggior parte dei casi sono anche difficili da spiegare. Una vita divisa tra due ruoli, forse anche qualcuno in più. Castel come uomo, militante, attore, folle. Una vita alienata dalla realtà, vissuta anche nell’alternarsi di periodi schizofrenici. Quelli erano gli anni Sessanta. L’unico modo per esistere era dire di no, ma presto diventò un personaggio scomodo per l’Italia. Arrivò a Roma che era giovanissimo e da questo ricordo parte il documentario A pugni chiusi di Pierpaolo De Sanctis sulla vita di questo “mostro sacro”, presentato in queste ore alla Casa del Cinema di Roma e già nel mirino di Sky e della Rai. In primo piano c’è un Lou invecchiato, con pochi capelli bianchi, lunghi;  ingrassato, trasandato. Non più l’attore militante di una volta. Protagonista della scena è un uomo semplice, che passeggia nelle zone più periferiche della capitale, quasi a dimostrare definitivamente che non ha mai smesso di disprezzare tutto ciò ch’è borghese.

Una scena in cui Castel racconta dell'espulsione dall'Italia

«Non seguivo un copione. Io stesso ero il copione. I luoghi sono stati un’interfaccia che, in qualche modo, mi hanno ispirato durante la scelta di ciò che volevo o non volevo dire. Nulla di prestabilito, è stato tutto una continua sorpresa»

Sul grande schermo c’è un uomo che cammina piano, che si racconta piano. Poi una risata quasi “sguaiata”: è davanti a lui, la casa della madre. Ne ricorda il grande terrazzo, ma questa volta lo sta guardando da un’altra parte della città. Da un punto in cui non l’aveva mai osservata. Ride. Eccolo di nuovo. Questa volta seduto davanti a una scrivania, in un vecchio capannone. Legge, e ricorda di quel 1972 in cui fu espulso dall’Italia. Senza un motivo: era un militante maoista, il Castel di quei ricordi lontani. Negli anni della lotta politica arrivò fino in Calabria, a San Giovanni in Fiore. Racconta dell’alienazione personale, dell’isolamento, del rifiuto di quella realtà che lo rendevano sofferente. È tutto spontaneo, naturale, inaspettato. C’è il ricordo di suo padre, la caduta da cavallo di quand’era bambino. Ancora, il suo essere violento, la schizofrenia, causati da quello stesso senso di alienazione tuttora presente. Un altro Castel, diverso. Non solo mutato dallo scorrere del tempo nel corpo. Non c’è ha una parte da recitare. È un Castel non più attore, ma regista interno della sua stessa vita, in perfetta armonia con quello esterno.

Come hanno potuto seguire in diretta un po’ di amici sul nostro canale Instagram, seduto in prima fila c’era anche Marco Bellocchio, regista del film d’esordio di Lou Castel negli anni Sessanta, I pugni in tasca. Il regista di Sbatti il mostro in Prima pagina, de I cento Passi, La Meglio gioventù e tanti altri capolavori ha detto di esser rimasto «molto emozionato dal film. Un film che racconta in modo anti-spettacolare – che per me è una qualità – la vita di Lou con un ritmo del tutto originale». Pierpaolo De Sanctis ha parlato così del suo documentario: «Un travaglio durato otto anni, perché è stato difficile trovare le condizioni produttive che permettessero le riprese di questo film; poi l’iniziale diffidenza di Lou: non era facile rimettersi in gioco, lasciarsi andare in questa intimità. Non ero pronto nemmeno io in realtà. Diciamo che è accaduto tutto nel momento esatto in cui doveva accadere: il tempo ha giocato un ruolo fondamentale».

Lou gli era seduto accanto. Annuiva, quasi timidamente, poi con generosità si è concesso ad un pubblico intergenerazionale ed è tornato sull’argomento nell’intervista che qui riportiamo in modo integrale.

Poco fa De Sanctis ha detto che non è stato facile dar vita a questo documentario; lei ha dovuto rimettersi in gioco e riportare alla luce molte questioni “private”, quindi inizialmente era restìo all’idea di questo progetto. Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Dovevo trovare il casuale. Come una corda, che tiri tiri fino ad arrivare alla fine. Così le scene: una scena che produce un’altra scena, fino alla fine. Non volevo farlo attraverso un qualcosa di programmato. Quando leggi che sarà la tua autobiografia, sai che non stai recitando. Non c’è quella corda che ti mette in azione come attore, ma come attore che sa recitare sé stesso che è molto più complesso dell’interpretare un personaggio. Dell’imparare la battuta a memoria. Qui mi devo sdoppiare nel momento stesso in cui recito: sono io e non io simultaneamente».

Che valore ha per lei questo documentario?
«Ha un grande, grandissimo valore. Spero che lo scoprano, questo valore, perché nessuno lo dice. Perché dicono, “sì, è il grande attore”, invece no, è molto di più. È qualcosa in cui c’è il mio modo di essere e il mio modo di recitare, insieme»

È stato questo suo modo di essere che l’ha portata a rifiutare ruoli che non sentiva suoi?
«Quelle sono scelte di vita. Prima di fare l’attore ero comunista, con l’ideale di cambiare il mondo. Per cui l’essere è un qualcosa che non si può avvicinare all’attore. È difficile da immaginare, soprattutto per le nuove generazioni. Negli anni Sessanta si poteva percepire cos’è l’esperienza, adesso non è possibile. Non c’è più un’esperienza diretta; adesso è indiretta»

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«Quando nei film dovevano frustarmi mi arrabbiavo. Dicevo: “Ma frustatemi davvero! Come faccio altrimenti a reagire?”; oppure quando mi legavano i polsi con le corde mi veniva un po’da ridere: si vedeva che potevo liberarmi da solo!».

Tempo fa ha affermato che l’unico modo per dare una svolta alla realtà sarebbe uscire dal capitalismo. Ma se ormai l’esperienza è indiretta, i giovani di oggi cosa potrebbero fare per dare una svolta concreta?
«Non sono uno di quelli che dice che i giovani non capiscono niente rispetto a noi degli anni Sessanta. Semplicemente non hanno la percezione di quegli anni, quindi come fanno? Come tutte le generazioni hanno un altro modo di procedere, ma non meno rivoluzionario. A questa parola – rivoluzionario –  bisogna stare attenti, magari non si userà più, ma ci sarà sicuro un cambiamento sociale»

Potremmo dire che il sistema capitalistico ormai è entrato anche nel cinema; ma si può ancora fare politica attraverso i film? Attraverso quale tipo di linguaggio?
«Ci sarà sempre un linguaggio politico nel cinema, ma non come prima. Le ideologie sono finite, però ci può essere un impatto della forma artistica. Un impatto politico al primo colpo. Per esempio sul muro della Senna ho visto un dipinto: gli emigrati cadevano giù, ma con loro cadevano giù anche i parigini. È questo il senso: è proprio l’impatto di vedere un’immagine che lo rende politico, però con una grande riflessione artistica»

Poi si è alzato dalla sedia scattando, quasi a voler fuggire via dall’obiettivo. Dell’attore militante Lou Castel, nome d’arte di Ulv Quarzéll, rimane questo: un uomo senza rimpianti, che ha creduto, si è ribellato, ha lottato a pugni chiusi sempre e che, nonostante tutto, crede ancora che prima o poi qualcosa cambierà.

Carmen Baffi
Carmen Baffi

Appassionata di lettura e scrittura, sognatrice e contemporaneamente pessimista cronica. Scriveva Leopardi: “Sono convinto che anche nell'ultimo istante della nostra vita abbiamo la possibilità di cambiare il nostro destino.” Poi è morto.