Questa è una storia fatta di tutte quelle cose che la fama le precede. Annotano infatti i Ros in uno dei rapporti allegati agli atti del processo Mafia Capitale: “…il salto di qualità dell’organizzazione è reso possibile solo in ragione della notorietà criminale del Carminati e del gruppo che lo stesso comanda”. Alludono a tutte quelle questioni che stanno emergendo sui media e nelle aule di tribunale, ma non solo. Bisogna capire che il 416 bis (associazione di tipo mafiosa) questa storia rischia di non riuscire a contenerla e che applicare a questa roba lo sguardo del passato non serve. Il passaparola tutto romano dov’è impossibile distinguere verità e finzione è arrivato al punto tale che al Cecato basta un gesto della mano in mezzo alla strada, come quello con cui indica minaccioso Michelino Senese. Chi è Senese? Anche se la giustizia l’ha assolto dall’accusa mafiosa, è ritenuto il delfino del capo camorra Carmine Alfieri e il leader carismatico della batteria di Ponte Milvio, quella che prima dei colpi era solita dirsi la battuta che ha fatto la fortuna delle serie televisive: “Pijamose tutta Roma“. Sono due capi assoluti, insomma, che hanno condiviso quattro anni di carcere per i fatti della Banda della Magliana e, secondo Antonio Mancini, anche lui uno dei capi storici del sodalizio romano, le gambe larghe di Carminati, il dito puntato e l’altra mano posta sul fianco “come se c’avesse a fondina” sono una prova di forza indiscutibile dell’uno in confronto all’altro.
review – Episodio 1 | Eravamo quattro amici al Nar
Mancini nel documentario “L’uomo Nero” trasmesso in prima serata da La7 ha dichiarato: “Sto cinematografando la scena, ma perché è la scena che è cinematrografica, non perché la sto cinematogrando io“. Del resto di cinema se ne intende, non ha simpatie fasciste come gli altri sodali, anzi è piuttosto di sinistra e adora i film di Pier Paolo Pasolini: per questo lo hanno sempre chiamato “Accattone“, come il titolo di uno dei più bei film dell’indimenticato artista. Per i feticisti della fiction, l’alias da cercare per individuarlo in “Romanzo Criminale” è “Ricotta“. Nel libro intervista con la giornalista Federica Sciarelli intitolato “Con il Sangue agli occhi” ha raccontato che nelle rapine era solito gridare “Bumaye” per spaventare gli ostaggi. Si tratta della parola che il pubblico gridava a Muhammad Alì nell’incontro con Foreman, e significa “Uccidilo”.
Sul viale alberato di Corso Francia è tutto un cinema, insomma.
Capitolo 3
ER VENTICELLO.
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– “Lo sai chi so’ quelli, vè? Quelli comannano Roma, prega Dio de non avecce mai a che fa ‘co quelli”.
Tutta Roma Nord sa, e quando esplode il bubbone mediatico su Mafia Capitale e sembra cadere quel decennale velo di impunità, davanti ai carabinieri in stazioni come quella di Ponte Milvio iniziano a sfilare raccontando il sistema di vessazioni e minacce di personaggi che per decenni l’hanno fatta da padrone nei locali più in vista accanto ai personaggi più famosi. Un passaparola così efficace che per gran parte delle situazioni da dirimere neanche serve passare alla vie di fatto. Una reputazione di strada che però non si affida più esclusivamente ar venticello, ma che cresce anche grazie al boom dei media sociali. Sono infatti diversi i gruppi che forgiano con Facebook le nuove manovalanze giovanili alla cultura del rispetto verso una storia criminale, diffondendo anche “messaggi, proclami e iniziative volte ad incitare alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali“. A scriverlo sono di nuovo gli inquirenti in una inchiesta che riguarda i cosiddetti “banglatour”, spedizioni punitive contro i negozi gestiti da cittadini che vengono dal Bangladesh, una delle nazioni più povere del pianeta.
– “Stasera se lo famo un bengalino”?
Il messaggio gira sulla chat di gruppo, poi si discute e ci si organizza. La risposta finale è affidata ad un commento su Facebook, una vera e propria adunata:
– “Camerata della destra romana: azione“.
Secondo la Procura capitolina sono almeno 50 i bengalesi aggrediti solo nel biennio che va dal novembre 2012 allo novembre 2013. Beccati alle fermate del bus o sulle panchine di un parco e poi massacrati di botte. Vittime perfette perché ritenuti particolarmente mansueti, come se fossero bestie; la stragrande maggioranza di loro infatti non ha mai sporto denuncia alle forze di polizia per timore di dover poi tornare nel proprio paese. Azioni portate avanti da giovanissimi, adescati spesso con la propaganda sui social media, grazie a pagine e profili che propagano la sottocultura di una destra di strada ampiamente tollerata, laddove non protetta. Per indagarla bisogna uscire dall’aula bunker di Rebibbia e mescolarsi nella vita di ogni giorno.
Capitolo 4
FACEBOOK.
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Roma Nord: leggins e pischelle. Recita una scritta sul muro firmata con la svastica. Giorgio è l’unica parola di fantasia che segue. Un ragazzo in forze ma non in forse, pieno di certezze sotto il cranio rasato. Nato e cresciuto a Roma, in periferia ma nemmeno troppo, ha origini calabresi come chi gli scrive in chat e la cosa aiuta a rompere il ghiaccio: se gli chiedi perché non gli rode che più di qualcuno a Roma sia ancora razzista verso i meridionali, se non gli diano fastidio le scritte nel quartiere che chiedono “più case e meno calabresi”, ti risponde:
– “Se c’è qualcuno che non se comporta bene deve annassene. L’integrazione se suda, lavorando e rispettando le regole”.
Uno a zero per lui. Il padre lavora nelle forze dell’ordine, è da quando era giovane che è a Roma e ormai con il figlio, l’altro fratello e la moglie non tornano più nel paese d’origine, l’unica nonna rimasta se la sono portata nel quarticciolo. Giorgio invece ancora un lavoro vero e proprio non ce l’ha. Ha consegnato pizze nel quartiere e lavorato in un negozio, poi ha subito un furto e anche se non ha prove si è convinto che ad azzerare i suoi risparmi siano stati quelli del campo rom. Da allora sta sempre su “Radio Bandiera Nera” e condivide e commenta i post delle pagine di Casapound. Nelle cuffiette spesso si spara musica degli “Zeta Zero Alfa”, spiega a pappagallo come si fa ad avere una maglietta come la sua e che indossarla non significa avere “un prodotto commerciale, ma incarnare un messaggio e finanziare un’area politica non conforme”. Incitare alla violenza razziale è una pratica quotidiana, ma non ci si fa molto caso, l’idea ricorrente – il tema mantra – nelle conversazioni è piuttosto la fedeltà ad un gruppo. Il racconto che si ripete più volentieri infatti è quello relativo ad alcuni raid punitivi che per sommi capi sono stati descritti anche nelle informative e sono finiti su qualche sito internet. La prima avviene ai danni di un ragazzo che durante una festa organizzata in una casa violentò una militante di Forza Nuova, la seconda ai danni di un militante di Casapound per rimettere in pari una rissa avvenuta in un locale vicino Ponte Milvio. Il primo venne bendato e fatto inginocchiare in mezzo agli altri, un colpo di pistola gli lesionò il volto e l’udito. Il secondo finì in un gioco al massacro, sei contro uno, perché questa è una storia in cui “gli amici non si toccano”. L’illudersi di appartenere a qualcosa, di far parte di un sistema che difende un insieme di valori viene prima di tutto il resto. Solo in mezzo a questi ragazzi Giorgio ha l’impressione di non essere un fantasma. Sul cortile retro del bar dove stanno ogni giorno ogni tanto qualcuno fa capolino a chiedere se s’è visto Ferruccio Amendola. L’indimenticato doppiatore papà dell’attore Claudio, che nel film “Suburra” interpreta proprio un personaggio ispirato a Carminati, è però passato ad altra vita nel 2009: lo rievocano perché in codice chiedono un Ferro, una pistola con matricola abrasa da comprare al mercato nero. Seduto sul muretto, con i piedi sul tavolino passa le giornate a fumare e bere con gli amici anche Giorgio, e quando un gabbiano si avventa sulle molliche fa valere lo stivale e il vocione gutturale prendendosela con il sindaco Marino. Anche se ormai l’esponente rinnegato dal Partito Democratico si è dimesso da quasi due anni e ha governato per una parentesi fra le giunte Alemanno e Raggi.
Capitolo 5
FAKE NEWS.
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La diffusione del messaggio non passa solo dai Social, è veicolato anche da un complesso reticolo di siti di notizie locali forzate se non inventate di sana pianta. Per collaborare con uno di questi portali di informazione devi scrivere alla mail intestata a un politico locale che, secondo le carte processuali di diverse inchieste, vanta parentele pesanti nella destra eversiva capitolina. Alle mail a suo indirizzo risponde firmandosi una donna però, ti spiega cosa fare con i comunicati stampa e come funzionerà il tuo periodo di prova. Per i primi tempi i link in evidenza sul sito sono tutti riferiti alle posizioni del consigliere e dei suoi sodali sulle questioni municipali: raccontano di degrado e disservizi, di immigrati e campi rom, poi scrivono un po’ di tutto. Le password che ti vengono consegnate per caricare i pezzi sono tutte ispirate a intellettuali di destra, e se chiedi come verrà ricompensato il tuo lavoro il discorso viene preso alla larga, dicendo che dopo il primo mese e il caricamento di circa 20 articoli al giorno il direttore ti metterà in condizione di prendere il tesserino da giornalista pubblicista. I collaboratori sono infatti tutti i giovani alle prime se non primissime esperienze, a fare quello che una volta si chiamava lavoro di desk: lavorano da casa e seguono le conferenze stampa senza alcun rimborso spese. Un vortice di collaborazioni che iniziano e finiscono nel giro di poche settimane, un continuo rigenerarsi di cavie destinate al rafforzamento dell’immagine di due tre candidati che, sempre secondo i rapporti delle forze dell’ordine, si dimostrano volenterosi di radicarsi nel territorio romano e di entrare in rapporti di affari con un gruppo che dichiara di avere a disposizione anche pacchetti di 10mila voti.
La (nuova) comunicazione come grimaldello per insistere e resistere alla bufera di arresti, la capacità di usare vecchi e nuovi media che continua a scorrere come in un fiume carsico nel tam tam informatico, che non arriva alle cronache dei grandi giornali o si manifesta nelle strategie mediatiche dei personaggi più in vista. Quando in aula a Rebibbia finisce di deporre Salvatore Buzzi, infatti, Carminati in videoconferenza ritorna a dire tutto con un gesto della mano. Si alza in piedi, sorride e fa il saluto fascista in faccia allo Stato: sa benissimo che il video sarà presto virale e che quindi tutti non avranno occhi che per quello, ignorando il resto del mondo di mezzo.
(2 fine.)