Una pinseria romana è sorta ai piedi della gigantesca arpa che renderà il quartiere bello e moderno come quello di una grande città europea. Siamo nella periferia di Cosenza, l’imponente forma dello strumento musicale non è che un moderno ponte strallato, identico o quasi a quello di diverse metropoli mondiali: dopo 15 anni di attese è entrato nelle fasi finali di cantierizzazione e per la provincia dell’impero si prepara una grande festa, ovviamente a carico dei contribuenti. Ancora è tutto un cantiere, ma per capire come sarà il ponte una volta finito basta guardare l’insegna del ristorantino, che addirittura si chiama Santiago, come il famoso architetto spagnolo che ha progettato l’opera. Dall’altro lato ci sono case diroccate, con i numeri civici scritti in vernice non lavabile o con i gessetti colorati. In mezzo invece corrono strade strette, piante in vendita, lo scheletro preistorico di un enorme planetario e uno zampillo che perde acqua.
Un tempo qui, in mezzo al nulla, c’erano i zingari (da queste parti pronunciato con la zeta aspra): una delle comunità rom stanziali più longeve del Paese, interessate nei decenni da diverse operazioni di sgombero, più o meno coatto. Domani, all’ombra di un’antenna record da 100 o pochi metri in meno di altezza, ci vivranno notabili, fra parchi acquatici e altri ornamenti già renderizzati e disponibili a (costosissime) varianti. La zona si chiama Gergeri, chi fa politica da tutte e due i lati del fiume ha deciso di comprarci terreni e nei piani approvati da un Comune che galoppa verso il dissesto c’è scritto che è sotto riqualificazione.
Chi entra nella città che fu dei bruzi dall’area industrial-commerciale di Zumpano (sempre aspra la zeta), deve costeggiare il fiume e passare da qui, poi alla confluenza trova un altro ponte, stavolta antico, e scegliere: a sinistra la città vecchia, a destra quella nuova. Siamo qui a piedi perché questo capoluogo di provincia calabrese, in ritardo e in anticipo al tempo stesso, offre una sineddoche particolarmente interessante, esempio vivo di processi che nelle grandi metropoli sono ormai consumati e studiati da tempo. Stiamo parlando della gentrificazione, in wikipediese quell’insieme di meccanismi che trasformano un quartiere popolare in zona abitativa di pregio. Il termine dipende dall’inglese gentry, la parola che i sudditi d’oltre manica usano per indicare la piccola borghesia, e questo perché in soldoni si tratta del processo che in un determinato posto sostituisce gli abitanti poveri con quelli ricchi. Nessuna scena di deportazioni, badate bene: tutto di solito si verifica in modo lento, sfruttando l’innalzamento dei valori degli immobili e quindi il prezzo degli affitti. Un fenomeno planetario, che riguarda le periferie e soprattutto i centri storici (non a caso definiti borghi nelle leggi di salvaguardia e nei convegni con la erre moscia) e che sta riuscendo a imporre un sistema che rischia di svendere la storia in cambio di una stereotipata movidanità da cartolina. Una storiella che ovunque finisce male, con anonimi fondi di investimento che incassano a palate, mentre poveri e precari diventano pendolari e i benestanti si ritrovano in prigioni dorate a cercare di prender sonno sopra chiassosi localini, dove si consumano prodotti che potresti trovare ovunque: merci studiate e inventate dal marketing e distribuite in franchising, proprio come la pinsa.
Di questo tema all’apparenza potiomchiesco, invero, da queste parti si parla ancora poco e niente, mentre ormai da anni se ne occupano i più grandi giornali del mondo, come l’inglese The Guardian, che in “cities“ – una sezione di giornalismo partecipato finanziato dalla Rockefeller foundation – raccoglie le storie provenienti dai reporter, dagli studiosi e dai lettori in tutte le città del mondo su questo tema. Gli articoli sono tutti molto interessanti; in uno per esempio Rowan Moore si occupa (qui) senza sconti della riqualificazione della penisola di Greenwich a Londra affidata all’archistar Santiago Calatrava, proprio l’idolo dei pinsaioli di Calabria. Per spiegare gli inghippi che più avanti argomenterà, in attacco del pezzo il giornalista usa il colpo letterario, ricordando come nel romanzo orwelliano del best seller mondiale Dave Eggers intitolato “Il cerchio”, la sede del (fantasioso ma non troppo) grande fratello del terrore nato dalla fusione fra Apple e Google è dominata proprio da una bianca fontana dell’architetto valenciano, come simbolo di un potere che comunica algida e benigna grandezza mentre in nome del decoro urbano riduce lo spazio dei diritti civili.
Ma tutto questo potete leggerlo da soli, qui continuiamo a camminare e decidiamo di andare a sinistra, inerpicandoci con la strada verso la città vecchia: una meraviglia incastonata di gioielli architettonici dichiarati patrimonio dell’umanità. Un tesoro che per l’incuria privata e pubblica di decenni sta cadendo a pezzi sulla testa degli abitanti. Prima di addentrarci nei suoi meandri, va detto a chi non c’è mai stato che, diversamente da altre città, il centro storico qui non è più da tempo il vero centro della città; ci troviamo infatti nella porta Est e ancora una volta non è l’opera del caso: sempre il benedetto Guardian ci spiega con un interessante report chiamato “Blowing in the wind” (qui) perché in Occidente il proletariato ha finito per ghettizzarsi nelle zone orientali delle città post industriali. Questioni di venti, che valgono anche per quelli cosentini, mici e poco industriali. Qui nel buio dei vicoli che abbracciano il corso frequentato un tempo dal giurista Stefano Rodotà e dedicato ancora al filosofo Bernardino Telesio, sopravvive una città di cui si parla poco: i bambini rom sgomberati lungo il fiume sono finiti qui; nascosti al resto della città non vanno più a scuola e fra Santa Lucia e la Garrubba bombardate dall’incuria bivaccano sperando di cavarsela. Pochi avamposti di un tempo andato riescono a resistere, negozi dove si può comprare di tutto e poi pagare a fine mese, dove si trova tradizione, prodotti irripetibili altrove. Non c’è un’area attrezzata per giocare, non c’è alito per l’aggregazione, come se la sfera pubblica sia stata bandita o ceduta dallo stato ad altri imprecisati attori sociali.
Su Mmasciata.it ci siamo occupati in diverse occasioni delle polveri di questi antichi palazzi, per ultimo con un mini doc firmato da Camillo Giuliani e Gianluca Palma; sintetizzandolo, possiamo dire che mentre il Comune procede d’imperio con ordinanze di sgomberi e demolizioni controllate degli edifici in pericolo, il Comitato di Piazza Piccola percorre soluzioni diverse, con una mappatura degli stabili a rischio e la richiesta al Comune di immediati interventi di messa in sicurezza intimati ai privati negligenti, pena la possibile espropriazione e recupero degli immobili di loro proprietà, da salvare a vantaggio di tutti perché contenenti testimonianze storiche di grande prestigio. Per ottenere l’attenzione del resto della città su queste battaglie, i membri del comitato cittadino hanno pensato insieme ai ragazzi del collettivo del Filo di Sophia a una formula che si chiama Restart Cosenza Vecchia, che consiste nel mettere in rete una serie di aggregatori e attrattori culturali che si sta dimostrando in grado di portare centinaia di persone a riscoprire pratiche di cittadinanza attiva nei luoghi dei crolli.
Si tratta di una dinamica di riappropriazione molto interessante e da incoraggiare: ancora il quotidiano britannico per cui abbiamo finito gli aggettivi, in un articolo partecipato curato da Francesca Perry dal titolo “Stiamo costruendo la nostra strada per l’inferno: storie di gentrification in tutto il mondo” (leggilo qui), spiega in che modo da Città del Messico a Berlino iniziative nate dal basso tentano di resistere chiedendo politiche che permettano agli spazzini, agli studenti, ai camerieri, ai cuochi e alle infermiere di rimanere ad abitare le città che tengono vive con il loro lavoro. Dalla Spagna arriva anche questo reportage sull’attacco turistico al centro storico di Pamplona, segnalato dal sempre attento Ettore De Franco. Tutte testimonianze che parlano di soluzioni sociali, tipo promuovere spazi culturali innovativi e iniziative a basso costo per lo sviluppo di diritti sociali e civili degli abitanti (facciamo tre esempi: casa, scuola, cinema, piccoli ambulatori), cercando tutti di combattere il cosiddetto effetto Airbnb, l’innalzamento vertiginoso degli affitti con il turismo cavalletta secondo il modello mordi fuggi e distruggi.
E qui le regole giornalistiche ci impongono di chiudere il già lungo ragionamento con una domanda: è forse proprio rivedendo l’idea di turismo di massa che si salvano le nostre città? Siamo terrorizzati dai numeri delle migrazioni (quest’anno si è raggiunta la cifra di 64 milioni di persone in viaggio per necessità), mentre sottotraccia passa il fatto che per l’invenzione molto più moderna del turismo, nato appunto con la borghesia, il mondo nel 2030 raggiungerà la quota di due miliardi di persone l’anno che si spostano per diletto. Intendiamoci, viaggiare e conoscere liberamente è e deve restare il sale della civiltà: ma a quali condizioni, secondo quale modello questi numeri di turismo saranno sostenibili dai nostri ecosistemi? In questi giorni abbiamo visto diverse Regioni italiane che vivono storicamente di turismo chiedere lo stato di emergenza e calamità naturale per l’aggravarsi della crisi idrica, causata – si legge in modo inedito nelle carte presentate al governo – “dalla siccità e dal vertiginoso aumento degli afflussi turistici negli ultimi anni”. Insomma: di che tipo di progresso stiamo parlando se quando fa caldo non c’è acqua per tutti e quando piove ci casca tutto addosso? Parlando di alluvioni e frane sempre più frequenti, infatti, il noto geologo Mario Tozzi su La Stampa (qui) ci spiega che anche in questo caso pesa il fatto che “in nome del turismo abbiamo tradito la natura”, sostituendo per esempio nelle Cinque Terre i millenari usi agricoli di controllo e difesa dell’idrogeologia con quelli moderni di speculazione edilizia a fini vacanzieri.
Insomma: di turismo l’Italia può vivere ma anche morire, e se è vero come dicono gli scienziati che questa sarà l’ultima generazione in grado di cambiare l’abitabilità del globo prima che i cambiamenti climatici diventino irrimediabili, dei quartieri storici italiani dovrebbero cominciare ad occuparcene tutti, e non solo chi vuole solo metterli in vendita.
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aggiornamento Dic 2017| Dopo la faraonica inaugurazione del ponte, i media locali e nazionali hanno rivelato che: a) l’opera è stata finanziata in parte con i fondi Gescal originariamente destinati dell’edilizia popolare; b) i cittadini espropriati di casa e terreni per costruirla non sono mai stati pagati; c) in un cantiere collegato ai lavori è morto un operaio.
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aggiornamento Dic 2018 | La prestigiosa rivista Forbes annuncia che Airbnb ha stilato la classifica delle 19 mete che esploderanno nel prossimo anno: c’è pure la Calabria con la città di Cosenza
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immagine di copertina del fotografo Diego Mazzei