So che pare abbiano tutto per assomigliargli, ma questi non sono tempi di guerra. Sono tempi di malattia, tempi di sgomento, tempi di fragilità. Tempi da vivere: perché la vita che non è fragile non è vita. Abbiamo tutti bisogno di una cura a questi nostri giorni, ma cos’è la cura?
La cura (TRECCANI | cura s. f. [lat. cūra]. – 1. a. Interessamento solerte e premuroso che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività) è tutto ciò che è utile a convivere in dignità con la malattia, fino alla guarigione oppure fino alla morte.
Curare quindi non significa vincere o perdere una guerra, non significa combattere contro qualcosa, curare significa amare qualcuno.
È tutta qui la sfida per l’umanità: finché saremo senza medicine efficaci per questo virus, saremo impegnati a non rimanere senza altre cure per contenere i suoi effetti sulla salute dei più deboli. Chi non è impegnato fuori di casa in questa emergenza, deve rimanere a casa sua il più possibile proprio per questo motivo, per prendersi cura di sé stesso e degli altri, e per permettere a chi ha bisogno di cure ospedaliere di ottenerle. Per questo vanno evitati il più possibile gli assembramenti e le occasioni di contagio, per questo dobbiamo decelerare, cercare di appiattire la gobba di quella pericolosa curva, per non perdere il controllo e andare a sbattere a tutta velocità.
Le cronache manzoniane dalla Lombardia raccontano al mondo di centinaia di persone che ogni giorno muoiono da sole, cercando sprazzo di tutto l’amore di una vita negli occhi di uno sconosciuto palombaro che a un metro di distanza prova a galleggiare negli abissi di questo male.
È tremendo, inaccettabile per la nostra civiltà. Per reagire tutti e ognuno dobbiamo farci carico della cura dei deboli e degli ammalati, il sistema sanitario non può farcela da solo. Come farlo? Come essere utili dalle proprie case nel tempo in cui intere comunità per la prima volta dopo secoli sono costrette anche a rinunciare al rito dei funerali, del conforto con la vicinanza e con la presenza? Effettuando donazioni e esaltando il potere della parola.
Ormai siamo tutti protagonisti della comunicazione, quindi siamo chiamati a fare al meglio la nostra parte, che significa anche depotenziare il contagio delle parole tossiche. I malati sono i più deboli della società, hanno già tanti problemi, non meritano di doversi sentire anche in colpa per la propria debolezza. Ancor di più oggi che, senza distinzioni, malati lo siamo potenzialmente tutti (WIKIPEDIA | dal greco pan-demos, “tutto il popolo”) non cadiamo nella caccia verbale agli untori, non chiediamo nel modo sbagliato ai cittadini di combattere contro un nemico invisibile, altrimenti otterremo solo l’effetto contrario, e li vedremo combattersi uno contro l’altro.
Non tutti hanno gli stessi mezzi per affrontare questi tempi, non è vero che il virus è democratico. Proviamo a essere veicolo per tutti delle spiegazioni nel modo corretto, senza eccessi e distorsioni (TRECCANI infodemia s. f. Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili).
Abbiamo bisogno di parole adeguate, che facciano comprendere a tutti che non stiamo combattendo una guerra, ma che stiamo vivendo un’emergenza sanitaria, cioè un complesso sistema di problemi. Sono importanti le parole. Non ci sono “trincee” nei supermercati, nelle farmacie o negli ospedali, coloro che non possono stare a casa perché chiamati ad affrontare la parte più acuta del problema non sono kamikaze “in prima linea”, sono professionisti che devono poter fare il proprio lavoro con più serenità possibile, sentendosi sicuri di quello che sono, di quello che sanno fare.
I medici, per esempio, devono poter fare i medici e basta, non possono avere anche il carico emotivo degli eroi in battaglia, non può gravare solo su di loro il destino di questa emergenza.
Nel personale sanitario ci sono tanti troppi contagi e anche troppi decessi, e non meritano i medici e gli infermieri morti in questa epidemia di essere rubricati come dei caduti di guerra, come dei sacrifici necessari. Perché i medici che hanno perso la vita durante questa emergenza sono morti sul lavoro. Non sono vittime di un virus, ma di una società che non li ha protetti nello svolgimento del loro compito, che non li ha equipaggiati adeguatamente, che non ha investito su di loro. Una società di evasori fiscali che ha parlato per decenni di emergenza alle frontiere facendo finta di non sapere che la sicurezza di un paese è data dai fondi investiti nel sistema sanitario pubblico, nell’istruzione pubblica, nella ricerca.
Questa è la grande sfida dei giorni che viviamo e vivremo convivendo con la malattia, mettere in condizione i medici di curare e gli scienziati di imparare da lei. Sono in corsia per curare e capire, mentre tutti noi siamo qui per sperare, come scriveva il grande Gianni Mura, e aveva ragione.