L’edizione che ho nella mia libreria è quella del 1967. Apparteneva a tale Bruno Samori (chissà chi era, chissà perché questo volume adesso è in questa strada ammucchiato tra tanti altri); le pagine sono quasi gialle e macchiate nell’angolo, nella parte in cui sono rilegate. L’ho trovato su una bancarella torinese: due euro e il sorriso del signore che me l’ha venduto, giallo pure quello, per le storie del “Le libere donne di Magliano“, scritto nel 1953 da Mario Tobino.
Il manicomio in cui tutto succede, perché “nel manicomio tutto si svolge tra i muri”, è nella campagna Toscana: “è su un colle, un piccolo colle”. I corridoi sono bui.
È qui quindi che vive un esercito di creature addolorate e deliranti, innamorate e impaurite, agitate e abbandonate. Feroci. Schizofreniche, depresse, spiritate.
Tobino spesso ne descrive gli occhi, perché ognuna porta nello sguardo ciò di cui deve liberarsi, la condanna.
Fate e streghe giovani o vecchie che trascorrono le proprie giornate nelle loro celle, “piccole stanze dalle pareti nude”, con le finestre sbarrate.
Un microcosmo indipendente, con le sue regole e con i suoi ritmi scanditi dalle malattie.
Qui vivono gli infermieri che arrivano dal paese, qui vive il medico che racconta mentre cura e studia i suoi pazienti, racconta mentre li ama.
Li ama mentre e proprio perché li racconta, facendo i conti con l’impotenza: i malati possono guarire, oppure no; e hanno volti e ossessioni e passati tragici e felici. Lasciare traccia e coltivare la memoria di chi abbiamo visto soffrire è una delle forme più pure d’amore che ci è concessa, nonostante quell’impotenza.
Ci scopriamo umani perché compassionevoli.
Fuori intanto, nei cortili e oltre la collina, la natura segue il proprio corso: le stagioni si alternano, gli alberi inaridiscono e poi, puntuali, rifioriscono.