di Camillo Giuliani
IL MIRACOLO Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il centravanti Joe Gaetjens si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui un suo colpo di testa aveva umiliato gli inventori del calcio. Nella mente gli scorrevano le immagini della sua breve vita: gli anni dell’infanzia nella villa di Port au Prince, il lavoro come lavapiatti da Rudy ad Harlem per pagarsi gli studi da ragioniere alla Columbia University, la nascita dei suoi tre bambini, i Tonton Macoutes che entrano nella sua lavanderia con la pistola puntata per condurlo a Fort Dimanche. Foto nitide, tranne una: quella del goal contro gli inglesi ai Mondiali del ’50 che lo aveva consegnato alla Storia per sempre come l’uomo del Miracle match, la partita del miracolo. Joe, con la testa affondata nell’erba, non aveva fatto in tempo a vedere la palla entrare in rete e dietro la porta non c’era nessuno pronto a scattare immagini. I fotografi erano tutti dall’altro lato del campo, in attesa d’immortalare un goal britannico che non arrivò mai. Il miracolo era compiuto: Stati Uniti 1 – Inghilterra 0. I maestri del football, che fino a quella edizione avevano snobbato la coppa, avevano perso e a sconfiggerli erano stato undici tizi che chiamavano soccer il loro gioco e nella vita tutto facevano tranne i calciatori: il portiere aveva un’impresa di pompe funebri, il centravanti (Joe, appunto) lavava i piatti, il terzino era un maestro di scuola, poi c’erano un macellaio, un postino e così via. Molti di loro non erano nemmeno yankee: la squadra era infarcita di emigrati italiani e messicani, c’erano uno scozzese e un tedesco e, in attacco, quell’haitiano sempre gentile con la pelle da creolo e il cognome fiammingo; avevano firmato tutti una dichiarazione d’intenti con cui si impegnavano a prendere la cittadinanza americana subito dopo il mondiale – per la Fifa era sufficiente per farli schierare dalla nazionale a stelle e strisce – e pazienza se di ritorno dal Brasile nessuno portò avanti le pratiche.
DAVIDE E GOLIA Dire che quel 29 giugno del 1950 a Belo Horizonte Davide sconfisse Golia sarebbe perfino riduttivo: i bookmaker quotavano una vittoria statunitense 500 a 1. Gli americani si erano presentati negli spogliatoi col sigaro in bocca e i sombrero sulla testa, gli inglesi erano così sicuri di sé da non schierare nemmeno Stanley Matthews, uno capace di far ammattire le difese di mezzo mondo fino a cinquant’anni suonati. L’allenatore degli Usa confidava talmente tanto nei suoi giocatori da dichiarare alla stampa, il giorno prima del match, che avrebbero fatto la fine di agnelli mandati al macello. E molti giornalisti, quando nelle redazioni arrivò l’agenzia col risultato della partita, pensarono che ci fosse un refuso e che il match si fosse concluso 10-1 e non 0-1. Non era andata così: Frank Borghi, il portiere che fuori dal campo guidava i carri funebri, si era trasformato in un gremlin – lo definì così Tom Finney, stella dei Tre Leoni – che non faceva passare un pallone e Joe, in uno dei rarissimi attacchi della sua squadra al 37esimo del primo tempo, aveva deviato in tuffo di testa un tiro del suo compagno Walter Bahr, spiazzando il numero uno britannico Bert Williams. I sessanta successivi minuti d’assedio non avevano schiodato il risultato e al fischio finale i brasiliani sugli spalti avevano invaso il campo di gioco per portare in trionfo lo spaesato autore di quel goal che, eliminando gli inglesi, sembrava spianare la strada verso il successo per la nazionale carioca. Illusione vana: la coppa Rimet finì nelle mani dell’Uruguay di Ghiggia e Schiaffino, dentro un Maracanà sommerso dalle lacrime dei tifosi. Gli americani, nel frattempo, erano tornati ai loro lavori in patria e ad accoglierli non avevano trovato praticamente nessuno, tranne qualche moglie che si lamentava del ritardo del proprio consorte. Joe Gaetjens, invece, si era trasferito in Europa, ingaggiato dal Racing di Parigi. Un paio di stagioni sotto la Tour Eiffel, poi il ritorno ad Haiti come rappresentante della Palmolive e della Colgate. Gli haitiani lo accolsero come un eroe nazionale, nonostante pochi anni prima la stessa famiglia di Gaetjens avesse appreso della sua presenza in campo ai Mondiali e del goal contro l’Inghilterra solo per caso grazie alla radio. Joe sposò sua cugina Liliane, aprì una lavanderia e una scuola calcio per i ragazzi poveri di Port au Prince.
LO STREGONE Tutto sembrava andare per il meglio, poi venne Papa Doc. François “Papa Doc” Duvalier era un medico haitiano eletto presidente della Repubblica nel 1957. Preso il potere – non senza qualche aiutino elettorale dell’esercito – aveva mostrato il vero se stesso: feroce, sanguinario, matto come un cavallo. Nei primi anni da presidente aveva portato avanti politiche contro la minoranza benestante mulatta – ne faceva parte anche Joe Gaetjens – e seminato il terrore tra la popolazione facendo leva sul culto voodoo, ancora diffusissimo sull’isola. Duvalier faceva circolare storie secondo le quali i suoi avversari venivano trasformati in zombie, sosteneva di essere lui stesso un hougan (una sorta di stregone nero) e nelle sue apparizioni pubbliche era solito “sfoggiare il look” di Baron Samedi, divinità voodoo che guida i morti verso l’aldilà. Per ingraziarsi anche l’elettorato cattolico, però, non si era fatto mancare nemmeno i manifesti con Gesù che gli metteva una mano sulla spalla dicendo “Io l’ho scelto”. E se poi la religione non fosse stata convincente, beh, c’erano sempre gli omicidi. Si calcola che, tra il 1961 – data in cui ottenne un secondo mandato presidenziale col trasparentissimo risultato di 1 milione e 320mila voti a favore e nessuno contrario – e la sua dipartita nel 1971, furono almeno 30mila gli haitiani uccisi dai Tonton Macoutes (“orchi” in creolo), un misto tra stregoni e poliziotti al servizio di Papa Doc. Gli avversari politici venivano portati nella prigione di Fort Dimanche, torturati e fucilati, anche se qualcuno era riuscito a rifugiarsi all’estero. Tra questi, anche Freddie e Jean Pierre Gaetjens, fratelli minori di Joe scappati nella Repubblica Domenicana per organizzare un golpe e rovesciare Duvalier. Il nome della famiglia Gaetjens arrivò così alle orecchie di Papa Doc, che, nel frattempo, si era autoproclamato presidente a vita la notte del 7 luglio del 1964. Alle dieci del mattino successivo, due Tonton Macoutes si presentarono nella lavanderia dell’ex centravanti e, armi alla mano, lo caricarono su una macchina per portarlo a Fort Dimanche. Da principio i Gaetjens provarono a parlare con Duvalier, che promise di liberarlo. Poi tentarono di corrompere una guardia per fare evadere Joe: 4000 dollari per la sua vita, ma il giorno dello scambio nessuno si presentò all’appuntamento. I Gaetjens capirono che sperare ancora era inutile e che per evitare la stessa fine non restava loro che la fuga all’estero. La conferma ufficiale dell’uccisione di Joe arrivò solo nel 1972, alla morte di Papa Doc. La sera del 10 luglio del 1964, la sua ultima sera, l’ex eroe nazionale era stato condotto nel cortile del carcere e, anche se la politica non era mai entrata nella sua vita prima di allora, si era beccato una pallottola in testa, come un ribelle qualsiasi.