Cento giorni al Mondiale brasiliano di calcio, continuiamo a percorrere le storie dei personaggi che con il pallone fra i piedi hanno cambiato l’immaginario collettivo e quindi la società. La rubrica MARACANA’ ritorna con la storia più bella e più triste del calcio brasiliano, quella della leggendaria stella solitaria di Manè Garrincha, la Gioia del Popolo.
di Camillo Giuliani
Torvaianica non è Rio, ma anche lì ci sono il mare, i bar, i palloni. E a Manoel per ritrovare il sorriso bastavano quelli. L’aveva perso nel giorno in cui, guidando sbronzo, si era schiantato contro un camion di patate causando la morte della suocera, seduta accanto a lui, e per il rimorso aveva tentato di suicidarsi col gas. Elza decise che quello era troppo, e che bisognave partire, lasciarsi alle spalle il Brasile e i fantasmi della mente.
Quando si erano conosciuti, nel 1962, Elza era una cantante di 25 anni: vedova da cinque, si era sposata a dodici con un tizio più vecchio di lei di dieci, che, dopo averla stuprata ancora bambina, le aveva dato cinque figli (più due aborti) e un sacco di botte prima di morire. Neanche Manoel, a un passo dalla trentina, era quel che si dice un buon padre di famiglia: una moglie, una quindicina tra figli legittimi e non, innumerevoli amanti e una passione smodata per birra e cachaça. Si erano innamorati subito, di un amore disperato come le loro esistenze. Manoel aveva divorziato da sua moglie per sposare Elza, senza pensarci su due volte. Poi c’erano stati un infortunio, l’incidente, la depressione, la fuga in Italia.
LE SBRONZE DI ROMA Ora la sera, nei locali di Roma, lei cantava e lui si scolava le bottiglie. Di giorno, tra un bicchiere e l’altro, tirava quattro calci in una squadretta amatoriale del litorale romano. Veniva da chiedersi come facesse a reggersi in piedi. Sbronze a parte, aveva il cervello di un bambino nel corpo (storpio) di un adulto. La spina dorsale come una di quelle stradine di montagna piene di tornanti, il bacino slogato, gli occhi un po’ strabici; le gambe, se possibile, conciate ancora peggio: la sinistra più corta della destra di sei centimetri, un ginocchio girato verso l’interno e l’altro all’infuori. Eppure, quando la palla gli arrivava tra i piedi, era ancora lui a ubriacare gli altri e tutti tornavano ad essere dei “João”. Chiamava così il suo avversario di turno – chiunque fosse, non importava il suo valore – anche quando, anni prima, era stato un calciatore professionista. Il meno pagato della storia del calcio brasiliano, cinquecento cruzeiros per firmare il primo cartellino col Botafogo dopo un provino che la dice lunga sul personaggio: si era presentato senza scarpe allo stadio, così l’avevano rispedito indietro; l’indomani gliene avevano prestate un paio, lui era tornato e aveva fatto ammattire coi suoi dribbling nientepopodimeno che Nílton Santos, difensore della nazionale detto Enciclopédia do futebol per il suo talento. Quello, per paura di ritrovarselo di fronte da avversario al Maracanà, era corso dai dirigenti a dirgli di tesserarlo: “E’ un fenomeno”.
Ma era un’epoca lontana, quella, in cui il mondo stava per conoscere anche Manoel Francisco dos Santos con un altro nome: Mané Garrincha. Glielo aveva dato una delle sorelle quando era piccolo e inseguiva gli uccellini (garrincha, in portoghese) nella favela di Pau Grande; tra Mané, il padre alcolista Amaro (i nomi non sono casuali a volte), mamma Maria Carolina e gli altri figli, erano in 15 a casa dos Santos. Nel Botafogo – ci restò per tredici anni, accettando spesso contratti in bianco che non incassò mai – l’uccellino si trasformò nell’anjo de pernas tortas, l’angelo dalle gambe storte. Scrisse di lui Eduardo Galeano: “Garrincha esercitava le sue astuzie da malandrino ai bordi del campo, sul confine destro, lontano dal centro: cresciuto nelle periferie, in periferia giocava. Giocava per un club che si chiama Botafogo, che significa ‘accendi fuoco’, e proprio così era lui: il Botafogo, che incendiava gli stadi, pazzo per l’aguardiente e per tutto ciò che ardeva, quello che scappava dai ritiri calandosi dalla finestra, perché da qualche posto lontano lo chiamava un pallone che chiedeva di essere giocato, una musica che chiedeva di essere ballata, qualche donna che voleva essere baciata”.
UCCELLINO DI SVEZIA Poi, nel ‘58, l’uccellino volò con le sue ali sghembe fino in Svezia. A Mané bastano tre minuti, i primi che disputa in un Mondiale. Insieme a lui, un altro esordiente, il diciassettenne Edson Arantes do Nascimiento, che farà strada con un soprannome: Pelè. Di fronte, l’Urss del “ragno nero” Yashin, l’unico portiere ad aver vinto il Pallone d’oro. Palla al centro e poi a Mané, che dribbla mezza squadra sovietica e spara un missile che Yashin devia sul palo. L’azione continua, Nílton Santos ripassa il pallone a Mané, che stavolta evita “solo” un paio di russi prima di passarla morbida a Pelè. Controllo, tiro, ancora palo. Altri dribbling di Mané, nuovo cross millimetrico e stavolta Vavà segna. I due ragazzini non escono più di squadra. Giocheranno cinquanta partite insieme nel Brasile – uno col sette sulla maglia, l’altro col dieci – senza perderne mai una. In 180 secondi è nata la leggenda di Alegria do povo e di ‘O Rey. Il primo dribbla tutti i João che incontra con una finta che è sempre uguale eppure ogni volta diversa, l’altro fa goal a grappoli. Al termine della finale vinta contro i padroni di casa, Mané chiede ai compagni quando si giocherà il ritorno: il suo cervello da bambino di quattro anni – così lo bollarono i test attitudinali dei medici federali – non capisce la differenza tra un Mondiale e una sfida con gli amici a Pau Grande. Quattro anni dopo, il campionato del mondo è in Cile. Pelè è infortunato, Mané già alcolizzato. Ma trascina da solo la squadra al successo, come solo un argentino dal sinistro d’oro saprà fare ventiquattro anni dopo. Il quotidiano El Mercurio titola: “Da che pianeta arriva Garrincha?”. Gioca la finale anche se l’hanno espulso nella gara precedente per una reazione all’ennesimo calcione subìto. Per far annullare la squalifica e assicurarsi che a vincere non sia la Cecoslovacchia del blocco comunista, il guardalinee uruguagio che ha visto l’episodio viene rispedito a Montevideo su un aereo che da Santiago fa uno scalo di dieci giorni a Parigi e intervengono perfino ministri.
PERDENTE FORTUNATO Un vincente? No – la definizione è ancora di Galeano – un perdente fortunato. E la fortuna non dura. Mané fa in tempo a giocare un ultimo mondiale nel ‘66, segna anche un gran goal ma ormai ha più alcol che sangue nelle vene. Non lo aiuterà nessuno quando, tornato da Torvaianica, si trascina coi vestiti sporchi di vomito e senza un cruzeiro in tasca per i sobborghi di Rio. Dimenticato dai potenti, nel 1977 aggredisce Elza e lei lo lascia. Trova subito l’ennesima donna, fa un’altra figlia, ma ormai capita sempre più spesso che dorma per strada o sulle porte delle osterie, troppo ubriaco per ritornare a casa. Sparisce. Riappare, dopo anni, su un carro al carnevale di Rio: è ridotto a un guscio umano svuotato dall’alcol, ma la gente impazzisce al suo passaggio perché lui è Garrincha, l’uomo che come premio per la vittoria in Svezia aveva chiesto al presidente della Repubblica di liberare una colomba da una gabbia. La successiva apparizione pubblica la fa nel 1983, circondato da una folla oceanica, su un carro dei pompieri. In cima c’è la sua bara. E’ morto a 49 anni, col fegato e i polmoni a pezzi. Il referto dei medici che fecero l’autopsia riporta che nel suo stomaco c’era anche acqua. Di colonia però: si era ridotto a bere perfino quella. Piangono tutti stavolta.
Si dice che ancora oggi, se chiedi ad un vecchio brasiliano chi sia Pelè, lui si toglie il cappello in segno di ammirazione e gratitudine, ma se gli parli di Garrincha il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e scoppia in lacrime. Mozart fu sepolto nella fossa comune, a Manoel toccano i viottoli fangosi del piccolo campo santo di Pau Grande. La tomba è spoglia, uguale alle altre, abbandonata come il suo inquilino. Sopra c’è un epitaffio, sbiadito dal tempo: “Qui riposa in pace colui che fu la Gioia del popolo, Mané Garrincha”.