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MARACANÀ | Guaita: la fuga del Corsaro nero

Camillo Giuliani
Camillo Giuliani
Giugno09/ 2014

guaita campione

di Camillo Giuliani

Fu corsaro e gentiluomo, italiano e indio, eroe nazionale e traditore della patria, leone e pecora, ricchissimo e povero in canna, fuggiasco e direttore di carcere. Tutto per una scelta sbagliata. Era il 19 settembre del ’35 ed Enrique Guaita aspettava il suo turno nella caserma di via Paolina insieme ad Andrés Stagnaro e Alejandro Scopelli. Erano arrivati a Roma il primo maggio di due anni prima, ora tutti li chiamavano Enrico, Andrea e Alessandro. Perché, anche se nati in Argentina, erano italiani. Anzi, oriundi. Calciatori stranieri a cui il duce dava la cittadinanza per rinforzare le fila delle squadre locali (Nazionale in primis) con la scusa di riaccogliere in patria i figli degli emigrati. Per ottenere il doppio passaporto bastava solo svolgere il servizio militare nell’esercito italiano, senza troppa fretta, prima o poi. E il poi faceva paura quel pomeriggio di fine estate, con la visita di leva e la capitale infiammata dalle voci sull’imminente scoppio di una guerra in Abissinia.

CAMPO TESTACCIO Prima, invece, la fortuna aveva riservato ad Enrique il successo dei predestinati: l’esordio in primera divisiòn argentina a 17 anni nell’Estudiantes con tripletta all’Independiente, le convocazioni nella nazionale albiceleste, l’osservatore straniero che si innamora del suo talento cristallino e suggerisce a Renato Sacerdoti di acquistarlo. Sacerdoti, ebreo, è uno degli artefici della fusione tra più società calcistiche capitoline che nel 1927 ha dato vita all’attuale As Roma e ne è diventato da subito proprietario e presidente. Non gli mancano i quattrini – in città lo chiamano “il banchiere di Testaccio” – né la voglia di interrompere lo strapotere delle squadre del Nord, ma le sue origini – e, pare, un pizzico di simpatia di troppo per la sinistra – non ne fanno il beniamino delle camicie nere, specie del generale (e laziale) Giorgio Vaccaro, presidente della Figc e segretario generale del Coni. Sacerdoti se ne infischia, riporta il talentuoso Fulvio Bernardini alla Roma, poi spende oltre un milione e mezzo di lire per dare alla squadra uno stadio, ispirato a quello dell’Everton, che entrerà nel mito diventando perfino una canzone: Campo Testaccio. Ancora oggi chi frequenta la Sud dell’Olimpico sente intonare “Finché Sacerdoti ce sta accanto, porteremo sempre er vanto, Roma nostra brillerà!”.

Il goal di Enrico Guaita contro l'Austria nel Mondiale '34
Il goal all’Austria nella semifinale dei Mondiali del ’34

IL CORSARO NERO Per farla brillare ancora di più, però, il presidente ha bisogno dei giocatori migliori ed è per questo che nel ’33 punta sui tre oriundi argentini. Guaita arriva portandosi dietro, come tutti i sudamericani, un paio di soprannomi: in Argentina lo chiamano el Gentleman, perché una volta ha detto all’arbitro di annullargli un goal che aveva segnato con la mano, ed el Indio, per la carnagione scura. È il più forte dei nuovi acquisti di Sacerdoti e ci mette poco a dimostrarlo: tempo tre domeniche e una sua doppietta stende la Viola a Firenze. Ambidestro, tozzo nel fisico eppure agile dribblatore, può giocare ala su entrambe le fasce ma ha un fiuto per il goal e un tiro da centravanti di razza. Sempre in Toscana, stavolta contro il Livorno, si guadagna un nuovo soprannome: la Roma indossa una compiacente divisa color notte e si impone con una tripletta di Enrico, che da quel giorno diventa per tutti “il Corsaro nero”. Il ct Vittorio Pozzo impazzisce per lui e ne fa una delle colonne della nazionale che pochi mesi più tardi si laureerà campione del mondo. Su quel titolo c’è la firma indelebile di Guaita: goal della vittoria in semifinale contro il Wunderteam austriaco e assist per la rete decisiva di Schiavio nei supplementari della finale contro la Cecoslovacchia, pochi minuti dopo che Pozzo ha deciso di spostare Enrico in mezzo all’area di rigore. La mossa del ct viene ripresa in campionato dall’allenatore romanista Luigi Barbesino e l’attaccante italo-argentino ottiene un record mai più superato nei tornei a 16 squadre: segna 28 volte in 29 match, una media di 0.965 reti a partita, portando la Roma fino al quarto posto in classifica. Il goal più importante in giallorosso lo realizza il 25 novembre del’34 a San Siro nella vittoria per 0-1 sull’Ambrosiana. Arriva a Milano con l’espresso della notte, l’ha preso sabato a Termini per giocare, nonostante sia ancora dolorante per le botte prese undici giorni prima in terra d’Albione. Mercoledì 14, infatti, era stato uno dei leoni protagonisti della mitica battaglia di Highbury. Nello stadio dell’Arsenal si sfidano i maestri del calcio inglesi – quelli che snobbano la coppa Rimet ritenendosi di un altro pianeta – e i campioni del mondo italiani, che rimangono in dieci dopo pochi minuti per l’infortunio di Luisito Monti. I britannici ne approfittano, si portano sul 3-0 nel primo tempo, ma dopo l’intervallo torna in campo un’Italia diversa, rabbiosa, che segna due goal e sfiora più volte l’impresa di pareggiare nonostante l’uomo in meno. Gli azzurri vengono accolti come eroi al ritorno in patria. Guaita ha ancora 25 anni, ma è già una star: la Gazzetta dello Sport gli dedica un inserto speciale, il Littoriale lo celebra come il “centravanti del futuro. Nell’estate del ’35 Sacerdoti compra Allemandi e Monzeglio, i due terzini della nazionale di Pozzo, poi è costretto a lasciare la presidenza (ma non la proprietà) della squadra al senatore Vittorio Scialoja. Che come prima cosa fa firmare a Guaita un contratto da diecimila lire al mese: per sentirne sognare anche solo mille nella celebre canzone di Gilberto Mazzi bisognerà aspettare il 1939.

La rete contro l'Ambrosiana a pochi giorni dalla "battaglia di Highbury"
La rete contro l’Ambrosiana, undici  giorni dopo la “battaglia di Highbury”

LA GRANDE FUGA La Roma punta al suo primo scudetto e la cosa sembra non piacere negli ambienti che contano. Tanto che qualcuno nel ministero della Difesa si ricorda che i suoi tre oriundi sono in Italia già da un paio d’anni ma non hanno fatto ancora i militari: la guerra d’Etiopia è alle porte e tre baldi giovani possono sempre tornare utili, no? Il referto del medico a via Paolina quel 19 settembre fa paura: Guaita, Stagnaro e Scopelli sono abili e arruolati, pronti a diventare dei perfetti bersaglieri. All’uscita della caserma c’è il direttore sportivo della Roma, Vittorio Biancone, che li aspetta. Vede i tre molto agitati e prova a tranquillizzarli spiegando che i fascisti riservano ai calciatori – tanto più se così importanti – un occhio di riguardo, che non si muoveranno da Roma, che non andranno al fronte. Loro, però, ribattono chiedendo di essere lasciati di fronte all’ambasciata argentina, vogliono sentirsi dire anche lì che faranno i giocatori e non i soldati nei mesi successivi. I quattro si congedano dandosi appuntamento a Campo Testaccio per l’allenamento del pomeriggio. L’unico a presentarsi è Biancone. Ore dopo, nella sede della società arriva una di quelle telefonate anonime che durante le dittature non mancano mai: è un tifoso che dice di aver visto gli oriundi caricare dei bagagli sulla lussuosa Dilambda di Guaita e partire a tutto gas. La polizia troverà l’auto il giorno dopo a Ventimiglia: i tre l’hanno lasciata per un treno che li ha portati in Francia e da lì hanno preso il piroscafo, diretti a Buenos Aires. Enrico torna Enrique e il Littoriale lo liquida così: “Di pecore travestite da leoni domenicali non abbiamo bisogno, né crediamo opportuno continuare a nutrire serpi in seno. Siamo contenti di questo gesto come di una liberazione”. A qualcuno va peggio: Sacerdoti, dopo la fuga dei tre disertori, finisce in tribunale con l’accusa di aver esportato illegalmente valuta all’estero quando li ha acquistati in Argentina. I fascisti lo spediscono al confino e dopo la promulgazione delle Leggi razziali dovrà nascondersi a lungo in un convento per sfuggire ai rastrellamenti e alla deportazione. La Roma, priva del suo capocannoniere, arriva seconda, un punto dietro al Bologna.

La Roma del campionato 1934-35: Guaita è accosciato al centro
La Roma del campionato 1934-35: Guaita è accosciato al centro

IL CARCERE Il Corsaro nero intanto è tornato in campo, prima con il Racing e poi con l’Estudiantes. Con la nazionale argentina vince anche la Copa America nel ’37, ma la voglia di giocare è sempre di meno. Appende le scarpe al chiodo a soli 29 anni.Si trasferisce a Bahia Blanca per trovare un lavoro, diventa il direttore del carcere. Forse perché è più bravo nelle fughe, però, perde il posto qualche tempo dopo. Ridotto in miseria, si ammala di cancro e muore, poco prima di compiere 50 anni, a casa di un amico che gli sta offrendo un tetto. È il 1959 e in Italia come in Argentina ormai l’hanno dimenticato quasi tutti. Non Vittorio Pozzo, a cui parlando della sua fuga aveva confessato: “Ho commesso un grande sbaglio, mi sono rovinato”.

Camillo Giuliani
Camillo Giuliani

Giornalista bassista on the road, ritardato a L'Ora della Calabria poi forcaiolo al Garantista. Come Forlani, se qualcuno non avesse avuto l'ardire di servirglielo fritto al ristorante non avrebbe mai saputo dell'esistenza del cervello.

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