Per qualche strana ragione, ogni volta che nomino la Thailandia e dico di esserci stata, mi vengono rivolti sguardi un po’ straniti. Come se avessi scalato l’Everest. E questa impressione, di luogo remoto, pericoloso e inospitale, l’ho avuta qualche giorno fa, mentre leggevo i commenti sotto un post di una ragazza che chiedeva consigli – su una pagina Facebook di travel – per una vacanza solitaria in questa mitica regione.
Dal rapimento di donne straniere, al “fossi in te non ci andrei”: il repertorio del clichè sull’Asia selvaggia è stato rispettato da capo a piede. Può darsi che sia casuale che io m’imbatta in queste opinioni critiche. In ogni caso, ci tenevo a dire, per chi pensasse alla Thailandia come un luogo pericoloso – da visitare in regime controllato – che non è assolutamente così.
Questa foto è stata scattata a Bangkok nell’aprile del 2013 e, a parte il caldo e l’aver assaggiato la citronella dentro un piatto di riso, sono ancora viva. Ho fatto tutto tranne che un viaggio organizzato.
La Thailandia non è confinata solo alle spiagge di Pukhet e ai muri di cinta dei resort, ma è uno degli esempi di crescita più occidentalizzati che possano esserci nel sud-est asiatico. Bangkok è una metropoli di sei milioni e mezzo di abitanti (nel 2000) che non dorme mai. All’interno del perimetro urbano è possibile trovare di tutto: visitare faraonici centri commerciali (prendetevi libera un’intera giornata), baraccopoli sotto i ponti dello Skytrain, grattacieli lussuosi, intere strade dedicate all’intrattenimento notturno. Sì, anche alla prostituzione. Quest’ultima è ufficialmente illegale, ma produce il 3% del PIL e impiega quasi tre milioni di persone, secondo uno studio dell’università thailandese Chulalongkorn. Ho trovato un’estrema “democrazia urbana” a Bangkok: il ghetto, apparentemente, non esiste. Poveri e ricchi dividono lo stesso marciapiede: i primi ci passano la loro esistenza, i secondi ci transitano soltanto. Altrove questa mescolanza non è concepita, non permetteremmo mai di far costruire a un clochard la sua capanna di cartoni vicino a una vetrina di Prada.
Eppure gli asiatici non fanno altro che imitarci. I mini-market di quartiere, aperti 24 ore su 24, sullo scaffale dei cosmetici hanno in bella vista diversi tipi di creme sbiancanti, spesso dalla dubbia qualità. Questo fenomeno, diffuso anche in Africa, non fa altro che riproporre le icone di bellezza occidentali. Vaglielo a spiegare che noi ci siamo inventati l’esatto opposto e passiamo ore e ore sui lettini dei solarium per diventare neri. Ma quello che preoccupa più di ogni altra cosa è il ricorso alla chirurgia estetica sempre più massiccio: la blefaroplastica etnica (una modifica delle palpebre) farà scomparire gli occhi a mandorla per far posto a quelli tondi, quelli occidentali.
La Thailandia è anche un posto estremamente mistico: pur se inondati di turisti (le stime parlano del quattordicesimo Stato più visitato del mondo) gli innumerevoli templi dorati (wat) raccontano la storia di un buddismo probabilmente meno chic di quello tibetano, ma profondamente radicato. Parola di tassista che dava un colpo di clacson davanti ad ogni wat, in segno di saluto.
Affacciarsi alla finestra Asia fornisce una duplice prospettiva: tutto ciò che viene copiato lì, pur con tutti i pericoli di questo colonialismo culturale, assume un carattere megalomane, ancora più di quello presente ai nostri paralleli. Quello che invece importiamo diventa immediatamente esotico, etnico e svuotato di senso.
Forse sarebbe meglio che ognuno faccia il meglio che può, a casa propria e altrove. E che le culture non vengano storpiate da jet-lag vacanzieri.
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