di Carla Monteforte
La vita riserva sorprese che in fondo al vuoto in cui eravamo annegate non ci aspettavamo di trovare. La mia si chiama Tunisia, un luogo disperso tra deserto, spezie, azzurro e nero kajal e dei grandi occhi dei nativi puntati con curiosità su noi straniere che, spudorate e col capo scoperto, attraversiamo questa parte di mondo situato ad un’unica ora di volo dall’Europa. Forse può sembrare un mondo più lontano, ma non a chi come me partorita dal Mediterraneo nei volti celati dal velo e dalla pudicizia non può non riconoscere i propri tratti e riconoscere chi eravamo negli sguardi insistenti dei giovanotti che sembrano passar la vita fissando i viandanti nelle sale da tè (dove non si vede una femmina).
Più che un viaggio nello spazio, infatti, quello nello splendido Stato del Nordafrica, gelsomino incastonato tra Libia e Algeria, è un viaggio nel tempo. Un’affascinante attraversata lungo i decenni che, tra panorami aspri, insegne d’altra epoca e sigarette fumanti, conduce a certe istantanee di Pietro Germi e Mario Monicelli, dove maschi dalla pelle imbrunita dal sole di quello stesso parallelo si annidavano in stormi nei bar di piazza per scrutare le passanti camuffate in grandi scialli scuri.
Tutto questo e pure altro è la Tunisia, terra inquieta che da Oriente freme verso Ovest. Troppo vicina al Vecchio Continente per non mirarvi col voyeurismo d’un confinante che scruta tra le siepi del vicino più facoltoso (o semplicemente più strambo).
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LA PAURA
Percorrendo le vie del centro dal nero dei niqab e chador, ci si imbatte in hijab indossati alla moda dalle belle studentesse della capitale che festeggiano la loro personale primavera dentro un paio di jeans. C’è fermento a Tunisi. I mercanti della Medina ti riempiono di lusinghe per piazzarti un pacco. L’unica regola del fight club è contrattare. Tanto l’italiano lo parlano tutti: la lingua romanza è la vera eredità craxiana, una valuta svuotatasi del suo valore in un lampo di mitra.
«La gente ha paura, non viene più» è stato il mantra di questo tour nei contrasti del Maghreb e del mondo dove di noi cugini arricchiti è rimasta solo l’impronta. Ovunque.
Tunisia sedotta e abbandonata, potrebbe essere la sintesi di questo mio racconto nato dal caso. O forse dall’incoscienza; in tutta franchezza non sarei qui a tradurre sensazioni in parole se avessi avuto libero arbitrio su una meta. Questa mi è stata proposta per cui, dal mio tavolo dell’aperitivo, mi sono ritrovata all’aeroporto di Cartagine con in mano ancora lo spritz. Così, rimbalzata, e senza il tempo di inutili ripensamenti, mi sono ritrovata a vagare in un luogo che era ormai depennato dal mio mappamondo mentale (perché questa maledetta paura ha rimpicciolito il pianeta). La mia (di paura) ha fatto il check-in con me e visitato suq, musei e templi sacri. Solo che ad ogni passo si faceva una compagna di viaggio più debole, sopraffatta da altre vibrazioni e dalla curiosità (che della psicosi è l’unico antidoto).
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LATITANTI
Dopo gli attentati del Bardo e di Sousse i vacanzieri che nel Paese dei Gelsomini cercavano riposo e altri lussi a buon mercato se la sono data a gambe, dicevamo. I latitanti più ricercati sono gli italiani perché – è tangibile ad ogni passo – la nostra dirimpettaia si era fatta bella per piacere innanzitutto a noi, costruendo bistrot e caffetterie (e la reazione del personale degli hotel e dei commercianti che hanno salutato il nostro avvento come un fedele saluta un salvatore, non lasciava dubbi). I nostri sostituti hanno tinto di biondo i villaggi di Djerba: russi e mitteleuropei che si ritemprano dai rigidi inverni tra sole, piscine e balli di gruppo con instancabili giovincelli del luogo ad allietar signore e signorine da mattina a notte, nella speranza che a suon di Macarena queste si moltiplichino, permettendo loro di tenersi stretto il posto.
Le enormi strutture multistellate, nate come funghi sulle coste dell’isola del golfo di Gabès, hanno braccia grandi abbastanza da accogliere tutte e tre le religioni monoteiste; raccontano di fasti recenti in ogni cosa, di feste, schiamazzi, trenini, massaggi, relax e oli abbronzanti di cui ancora s’avverte la scia fondendosi a quella del narghilè e del tè alla menta. Vietato lasciare il Paese senza berne un ettolitro (ma meglio evitare di farlo nelle ore serali, a meno che non si abbia in programma una festa e un after).
Le forze militari sono dispiegate ad ogni angolo, per garantire la sicurezza dei visitatori, ma la musica non si è ancora fermata del tutto. Anzi, qualcosa si muove – ha assicurato il ministro del turismo tunisino (che è una donna!) Selma Elloumi Rekik, a Djerba per il tradizionale pellegrinaggio ebraico della Ghriba. Entro la fine dell’anno potrebbe essere siglato l’accordo “Open skies” tra Europa e Tunisia che dovrebbe fare da volano per il rilancio del turismo messo a dura prova dagli attentati del 2015. Il ministro ha parlato di segnali positivi di ripresa del settore anche grazie alle nuove offerte di prodotti come tour culturali, agriturismo, safari nel deserto, turismo medicale ed estetico. Ma la parola più usata in conferenza stampa è stata: «Sicurezza».
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LA FESTA
1100 tra militari e poliziotti vigilavano sulla buona riuscita della festa di Lag Ba’omer, il pellegrinaggio annuale degli ebrei alla sinagoga della Ghriba – la più antica d’Africa (586 a.c.), situata a pochi chilometri da Houmt Souk. Inizia 33 giorni dopo la Pasqua, dura tre giorni e richiama fedeli da Libia, Francia, Israele e Marocco. La sinagoga nel 2002 fu colpita da Al Qaeda con un sacrificio di 21 persone; da allora il flusso dei pellegrini è notevolmente diminuito ma non si è mai arrestato. Quest’anno, nonostante l’allarme lanciato dal Lotar (ente israeliano di monitoraggio del terrorismo nel mondo), 2500 visitatori sono giunti da tutto il mondo per vederla.
Sono 3mila gli ebrei in Tunisia, mille solo a Djerba, dove trovarono riparo dopo la distruzione del grande Tempio di Gerusalemme. Con le rovine, si dice, fu edificata la sinagoga che custodisce tra le sue mura una delle più antiche e preziose copie di Torah nel mondo, scritta su pelli di gazzella.
Che ci faccio io qui? Me lo sono chiesta per tutto il viale che dal parcheggio esterno dove ci ha lasciato il bus (perennemente scortato dalla polizia) conduce al tempio. Che ci faccio io, cristiana, cattolica, consumatrice di alcol e nicotina, blasfema frequentatrice di discoteche e gay pride, bardata in una sciarpa blu, presa in prestito da una gentile sconosciuta per camuffare le mie vergogne in segno di rispetto al luogo di culto (e alle mipsterz osservate con sincera devozione in notti trascorse tra insonnia e tutorial di contouring e hijab su youtube)?
Tutto è a dir poco surreale, mentre avanzo tra uomini in uniforme, camionette dai vetri scuri e mezzi pesanti.
Flusso di pensieri che mi accompagna fin quando, superato il metal detector, sono dentro. Amen. Carica d’adrenalina ho attraversato il varco della sinagoga e dei miei limiti finché d’un tratto non ero più nella mia vita ma in uno di quei servizi che mandano al Tg delle 13, e tu con un occhio alla tv e l’altro al prosciutto crudo pensi:
«Questi sono pazzi!». Tutto sembra lontanissimo dal tuo mondo e dalla tua coca zero, icona del colonialismo occidentale, che è lì che aspetta d’essere versata.
Ora in mezzo a quei “pazzi”, non si sa come, ci sei finita tu. A guardarli da vicino, però, da dietro quella sciarpa che ti fa sentire tanto esotica – e che, nel quartier generale degli ebrei, hai indossato alla musulmana – non ti sembrano poi tanto più folli di te. Se non fosse per il massiccio dispiegamento di forze armate, in effetti, la festa dei giudei di Djerba sarebbe risultata molto meno ansiogena di certe processioni che hanno luogo a pochi metri da noi, nella presunta evoluta Europa. Mi domando ad esempio che direbbe la signora col cappellino verde che tanto avevo temuto mentre leggevo blog e servizi che trasudavano ansia e terrore se, nel suo abito uscito da Burda 1996, si trovasse (come me) catapultata in un’altra dimensione (tipo di Sabato Santo mentre il sangue scorre a fiumi per le strade di Nocera Terinese dopo il passaggio dei Vattienti), e che idea si farebbe il banditore d’asta venuto dalla Francia per lanciare rosmarino e bouganville alle fanciulle se fosse testimone di certe Madonne e di certi inchini.
Ma la festa è un virus contagioso contro il quale il mio organismo, per fortuna, non ha sviluppato difese immunitarie. Quindi d’un colpo, rapita dai canti, dalle acconciature, dalle maioliche, dalle telecamere dei network mondiali, dal gusto retrò delle mises delle pellegrine che per l’occasione hanno indossato l’abito buono (nella speranza di metter su famiglia) sono fuori dal guscio e sono viva.
Rinvenire uno sposo alle non maritate pare sia proprio uno dei moventi che spinge i fedeli a partecipare alla festa di Lag Ba’Omer (che novità!). E poi c’è la ricerca della fertilità attraverso il rituale delle uova. Funziona così: le ragazze scrivono su un uovo un desiderio e il loro nome, lo ripongono vicino ad una candela finché il calore di questa non lo rende sodo. Poi lo mangiano e diventano feconde, il che – più che retrogrado o surreale – mi suona familiare. Mi ricorda infatti un certo santo protettore delle zitelle e delle spose infelici alle quali questi era solito prescrivere una sua ricetta: lo zabaione.
E d’un tratto la mia testa è posseduta da un altro tormentone:
«San Pasquale Baylonne protettore delle donne, fammi trovare marito, bianco, rosso e colorito, come te, tale e quale, o glorioso san Pasquale!».
Tutto il mondo è paese.
E l’unico rimedio a un’ossessione è trovarne un’altra.
Non ho più paura.
(repost vrinzula.it)