“Eccoli, anzi, eccoli qui tutti, per l’ultima volta insieme come mai più sarebbero stati, come li volle artificialmente la televisione, come li vollero i giornali e la memoria di tutti, in fila per cinque, i paesani della sposa scomparsa”.
Arriva così, a pagina 64 del racconto, il giudizio lucido e spietato del narratore di “Cristina d’ingiusta bellezza” sulla comunità riunita del suo paese natale. E’ l’antivigilia del 1984, c’è un paese intero affacciato sulle sponde del lago Aranà, uno dei sette laghi artificiali della zona, a testimoniare un’assenza imponderabile: la scomparsa di una promessa sposa il giorno del suo matrimonio e il ritrovamento della sua Citroen Diane nel lago. La storia di Cristina Petraglia, la più bella creatura che il paese abbia mai partorito, tanto bella da sembrare a tutti ingiusta e pericolosa, viene raccontata molti anni dopo da un testimone d’eccezione, quel bambino curioso della finestra di fronte che l’ha spiata per anni – prima dell’arrivo censorio delle persiane nuove- ormai diventato un adulto scrittore esiliato in Gran Bretagna.
Le vicende di Cristina hanno un riverbero potente sul suo paese – un villaggio del Meridione non meglio specificato – e sanciscono l’ingresso della provincia nell’orizzonte immaginifico della stampa nazionale, catapultando bruscamente le vite dei personaggi che lo popolano nel mondo degli “altri”. Lo scandalo della scomparsa si fa cronaca nera e diventa per i paesani l’unica storia da raccontare e da immaginare, l’evento assoluto con cui confrontarsi allora e per sempre, una chiamata alla coscienza o meglio alla fortificazione dei ruoli sociali.
“Abbiamo finto, da allora. Non come fingevamo tra noi, nella sfida a chi piangeva meglio e soffriva di più. Mentimmo davvero, di lì in avanti, colpevoli di quel dolore così eccitante: chi mai con l’occasione di essere fermato nel tempo avrebbe potuto rimanere lo stesso?” .
Così l’autore riflette sul modo di vivere e di raccontare il dolore nella provincia meridionale – “perché la vita è come decidi di raccontarla”– e regala al lettore una fotografia antica e sempre attuale delle dinamiche di paese, strette tra l’adesione alla tradizione e la bramosia intermittente di libertà e di anticonformismo.
Le azioni dei personaggi principali del romanzo hanno sempre come contraltare il paese, le opinioni del “coro”, il chiacchiericcio, il tentativo dei compaesani di interpretare e prendere confidenza con le vite degli altri, così impunemente diverse e simili alle loro. L’universo umano di “Cristina” sembra essere agito da umori e codici dal sapore magnogreco: oltre al “coro” che fa da sfondo agli eroi, le donne belle incutono timore e rassegnazione e gli uomini liberi invidia e disorientamento. Cristina, come Medea, Clitemnestra o Elettra, è una donna “cagna”, dotata di incontenibile bellezza e magnetismo, potente maga, elegante, sicure di sé, volitiva, letale per gli uomini e per chiunque le stia intorno. Cristiano, come Oreste, è selvatico ma spietatamente razionale, incarna la scommessa del libero arbitrio, cambia pelle più volte, si mescola e si perde nel mondo, valica i confini, conosce l’altro e sembra non averne paura, rinuncia a dio e sceglie il suo destino rischiando ogni giorno di perdersi o di cadere…
Le indagini sulla scomparsa di Cristina aprono varchi profondi nelle vite private dei suoi compaesani, mettono il naso nelle identità singole e abbattono le mura monolitiche e rassicuranti della cultura di paese, tramite le domande insistenti della polizia, dei giornalisti e dello psicologo Andrea Allemandi mandato apposta da fuori per fare una perizia. Il paese si svela all’altro e si conosce forse per la prima volta, mentre fa i conti con l’assegnazione della colpevolezza e con il senso di colpa cui pone rimedio con la promessa di redenzione collettiva in cambio della singola e definitiva condanna del colpevole. Così, menzogna e onestà si mescolano, l’angoscia e l’eccitazione per la scomparsa assurda di Cristina sono parte di una stessa emozione, tra curiosità morbosa e partecipe e brivido dell’ignoto.
Quel Meridione provinciale “scoperto” dagli antropologi e dalla TV diventa reale per gli altri e per se stesso tramite la cronaca nera, che, come un battesimo nazionale, lo inserisce nel consorzio del “noi” e lo mette in comunicazione con altri “noi” italiani. Siamo negli anni ’80, e il mondo sta cambiando proprio allora per quel piccolo paese di provincia, con la prima ondata della cultura globalizzata, la liberalizzazione dei costumi, il consumismo al galoppo, l’abbandono lento della sobrietà degli anni ’70, la pornografia dell’informazione di prima generazione.
“Cristina” è, infatti, anche un libro sul giornalismo e sugli effetti dell’informazione da saccheggio, avida di notizie e pettegolezzi, che tabloid come “Cronaca Vera” portavano e portano ancora nelle case degli italiani. Gli anni ’80 di “Cristina” rappresentano per l’autore e per i suoi personaggi un momento liminale, in cui al miracolo si sostituisce lo spettacolo, al codice sociale il libero arbitrio, ai personaggi mitologici le star pop e alle promesse spose le promesse di evasione.
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Il libro, edito da Rubbettino, è la brillante opera prima di Nicola H. Cosentino, classe ’91, calabrese, scrittore, giornalista pubblicista, sceneggiatore di corto metraggi, appassionato cinefilo e direttore artistico del festival di corti “Brevi d’Autore” (CS).
Il romanzo, come l’autore ha più volte spiegato in occasione delle presentazioni e in lunghe conversazioni che abbiamo avuto, nasce da una fantasia antica, sedimentata in decenni di vita in Calabria, nella terra delle prefiche, in cui il dolore è stato per millenni al centro di un esorcismo rituale, dove la “cosa pubblica” crea scompiglio, dove la cultura pop – della politica prima e della cultura nazionale poi – “uccide l’arcaico”, generando l’esodo ciclico dei giovani meridionali verso il centro-nord. “Cristina” ha attinto alla letteratura onirica e surreale sudamericana di Marquez, Cortàzar e Borges, alle descrizioni della provincia magica di Sandro Veronesi, al ritratto d’ambiente, al romanzo di formazione e al cinema, soprattutto quello di Mazzacurati e di Diritti, che racconta il tempo piccolo di comunità raccolte. “Cristina d’ingiusta bellezza” è diventando un libro noir quasi per caso e ciò nonostante tiene col fiato sospeso fino all’ultima riga, in una danza tra memorie e notizie di cronaca vere e fantasticate che conduce il lettore, con la giusta empatia e una buona dose di voyeurismo, nella coscienza di una comunità all’apice della visibilità e della vergogna, del senso di colpa e della voglia di esistere a tutti i costi.