di Andrea Mammone*
Non sono andato alla seconda edizione del Festival 2bePop di quest’anno. Un’evento musicale e culturale, innovativo e probabilmente unico in Calabria, ideato e organizzato in onore e sulla scia della figura del giornalista e “musicologo” Stefano Cuzzocrea. Quel giorno avevo, forse, un paio fantasmi che mi inseguivano, perὸ sapevo che Stefano non si sarebbe arrabbiato. Lui sapeva conviverci con gli spiriti. Quindi non scriverὸ di una grande serata, con incasso (naturalmente) interamente devoluto in beneficenza, dei dischi di Macromarco, del documentario Diggin’ New York, di Ghemon, e così via. Il mio “festival” l’ho avuto la notte dopo. E Stefano, in qualche modo, c’era. La musica e il nostro genio erano negli occhi di Umberto, quello che lui chiamava il “cugino ritrovato”, e che diventavano a intermittenza lucidi. Storie, racconti, gli articoli scritti battendo i tasti del computer con un solo dito, quelli su Rolling Stone stranamente risucchiati da un server, e poi risate, molte, sulle sue innumerevoli battute e il fine senso dell’umorismo che lo ha accompagnato fino agli ultimi tempi.
La ragazza di Umberto ascoltava con uno sguardo che lasciava trasparire un misto di stupore e (grande) ammirazione per questo piccolo grande uomo. La piazza era deserta, in una Paola che, a livello istituzionale, forse potrebbe fare di più per consentire le iniziative che possono essere collegate a Stefano. Tuttavia è inutile lamentarsi in maniera eccessiva. Qualche giorno fa (ri)leggevo alcuni brani da L’ignoranza di Milan Kundera. In uno di questi lo scrittore descrive la stato d’animo che legava alcuni esuli cecoslovacchi alla madrepatria: “lo stesso cineasta del subconscio che, di giorno, le inviava frammenti del paesaggio natale come immagini di felicità, organizzava, la notte, spaventosi ritorni in quello stesso paese”. Non è questa una situazione che, con sfumature diverse e probabilmente meno drammatiche, è condivisa da molti? I rapporti con le radici, quando si viene da uno dei tanti sud, possono essere complessi. Lo erano per Stefano, lo sono per tanti altri. Eppure l’atmosfera, seduti ai tavoli da Albino (chiuso, vista l’ora), era tale da andare oltre le difficoltà oggettive e personali. La rievocazione di Stefano creava una zona indefinita nella quale si mischiavano passato, presente e futuro. Come suggerisce il sociologo Paolo Jedlowski, “l’esperienza si compie quando viene narrata”. è come se delle volte dei frammenti ideali e immaginari, senza forme precise, delle persone che ci hanno lasciato tornino in vita quando queste, e le loro esperienze, diventano oggetto di narrazione. Nel caso di Stefano la peculiarità è che oltre al passato c’è davvero una dimensione futura. Infatti Umberto parla di progetti, workshops, libri e articoli. Il tutto non è evidentemente solo per il “ricordo”, è soprattutto la voglia di coinvolgere tutte quelle persone alle quali Stefano avrebbe voluto parlare che mi stupisce. Forse “raccontandolo” come fa l’editore Luigi Politano con i suoi dialoghi surreali su Facebook (e con la raccolta di scritti di Stefano, Ho un complesso rock, edito da Round Robin), e continuando a interagire con il suo mondo musicale, non si riscopriranno solo le sue traccie. Si darà la possibilità a qualche giovane giornalista, scrittore e musicista di percorrere la propria strada nella vita. E magari avremo gli occhi per vedere che, di tanto in tanto, il piccolo genio è li accanto a noi e ci sorride.
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*Andrea Mammone, calabrese di Paola, insegna storia contemporanea alla prestigiosa Royal Holloway University of London. Le opinioni professionali del 40enne Mammone sono state ospitate e riprese dai maggiori media del mondo. Il prof ha collaborato infatti con la Bbc e Voice of America, ed è incluso nell’elitario data base di studiosi di politica internazionale cui si rivolge Al Jazeera, scrive anche per The Indipendent, The New York Times, The Guardian, il Foreign Affaire, per l’Economist, per The Observer e perfino per il lontanissimo New Zealand Herald.