di Andrea Bevacqua
Il Cleto Festival ci lascia in eredità un fiume di pensieri sparsi e uno zaino zeppo di impegni sociali e civili che andrà ben utilizzato in questo anno che ci apprestiamo a vivere prima di ritornarci. Chi vede in questo festival solo un’occasione per rivedersi con gli amici alla fine della stagione estiva, oppure esclusivamente una piazza festante a botte di musica e bicchieri di vino sbaglia, e di grosso. Cleto è un festival auto prodotto, con pochi sponsor, ricercati tra le aziende più oneste, attente al sociale e all’ambiente sul territorio. Un laboratorio umano alimentato dal lavoro certosino e silenzioso di un gruppo di ragazzi, quello dell’associazione La Piazza e di tutti gli altri collettivi che riescono a coinvolgere, che ha deciso di non abbandonare il proprio paese, ma di viverlo e vivacizzarlo in tutto l’arco dell’anno. Cleto è il luogo della Resistenza umana, della creatività e della fantasia, della ricerca di un modo diverso di vivere la nostra terra sganciandosi dalle solite dinamiche clientelari. Cleto è il posto dove la mediocrità non è di casa, dove qualsiasi forma di arte trova spazio tra i vicoli del borgo ad esclusione dell’atavica arte di sopravvivere accettando le briciole dei potenti di turno. Cleto è il posto della discussione libera, della riflessione nella musica, nel teatro, nell’arte, nella gastronomia.
(fotoservizio di Marco De Laurentis)
Qui infatti si può bere e mangiare sano rispettando l’ambiente e contrastando le logiche dello sfruttamento delle multinazionali, stabilendo un contatto diretto con le piccole cooperative di contadini dell’America Latina e dell’Asia attraverso i prodotti del commercio equo e solidale. Anche solo per questo Cleto nei giorni del Festival diventa uno dei tanti momenti in cui si è orgogliosi di appartenere a questa terra; non ci sono “posti riservati” e gli unici politici che si intravedono nel borgo sono i piccoli amministratori dei comuni più virtuosi, quelli che hanno saputo valorizzare i beni comuni e dare dignità e forme umane all’accoglienza. Anche i giornalisti si distinguono, difficile trovare testate nazionali, e invece facile rintracciare in dibattiti e momenti di discussione quelli che amano raccontare le sacche di resistenza, non importa che abitino a Cosenza, a Roma o a Milano.
Così, ogni volta che si ritorna da Cleto ci si ritrova con un fardello pesante e pensante da portare a casa, una piacevole botta di energia che disorienta, che va metabolizzata, interiorizzata affinché possa essere spesa al massimo nella nostra quotidianità. Dalle piazzette tematiche dove si tengono gli incontri, si esibiscono gli artisti, si fa da mangiare, gli input lentamente si propagano scendendo a valle lungo il Savuto e raggiungendo la Salerno-Reggio Calabria. Scorrono nelle nostre vite diventando linfa vitale per i nostri futuri impegni civili, sociali e politici.
Il Cleto Festival ormai rappresenta una droga di cui davvero non possiamo fare a meno, una rigenerazione per una generazione intera, soprattutto per chi ha deciso di restare tra mille ostacoli e mille peripezie. Risalire il borgo fino al castello diroccato rappresenta un momento catartico, quasi una metafora della nostra difficoltà a resistere in Calabria, eppure arrivati sopra basta un niente per rigenerarsi, basta guardare il mare e il sole che lentamente ci tramonta dentro, basta abbandonarsi collettivamente alla musica e alle parole e quel luogo che potrebbe benissimo rappresentare la nostra Fortezza Bastiani e farci diventare tanti sottotenente Giovanni Drogo in attesa dell’invasione dei Tartari ci rigetta a valle ricordandoci che la nostra vita adesso continua giù, dove c’è un nemico forte da combattere: la mediocrità, quella alimentata dai nostri padri, da chi ha pensato bene che abbassare la testa e accontentarsi degli spiccioli potesse essere l’unico modo per vivere tranquilli e sereni.
A noi spetta il compito di continuare ad incendiare il presente della nostra terra, in fondo nel nostro zaino portiamo dietro un libro chiamato NO LOGO che alla prima pagina recita un proverbio dei nativi americani:
“Puoi non vedere ancora nulla in superficie, ma sottoterra il fuoco già divampa”.