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‘A Ciambra, nell’India di quaggiù

Viola Brancatella
Viola Brancatella
Agosto31/ 2017

Dialetto stretto, tabagisti bambini, musica a tutto volume, case abusive, piccoli espedienti per sopravvivere e la Piana di Gioia Tauro sullo sfondo. La Calabria torna, così, sul grande schermo in “A Ciambra”, seconda opera del regista italo-americano Jonas Carpignano, cresciuto tra Roma e New York e residente a Gioia Tauro dal 2010, dove si è trasferito durante le proteste dei braccianti di Rosarno. “A Ciambra” è il nome del luogo in cui la famiglia Amato vive dagli anni ‘80 insieme ad altre famiglie rom gioiesi, e dove Pio, il giovane protagonista quattordicenne (all’epoca dell’incontro col regista undicenne) si fa spazio tra gli adulti della sua famiglia per diventare grande, rubando qua e là e fumando vari pacchetti di sigarette al giorno. La storia di Pio Amato e della sua numerosissima famiglia si è intrecciata con quella di Jonas molti anni fa a Gioia Tauro, dove il regista si era trasferito per documentare le proteste dei braccianti di Rosarno – lavoro da cui anni dopo è scaturito il suo primo film, “Mediterranea”, accolto a Cannes come uno dei documenti più taglienti e realistici sulla crisi dei migranti nel Mediterraneo. In quei giorni Jonas stava girando il suo primo cortometraggio calabrese, “A Chjana” (“La Piana”, 2012), che ha come protagonista Koudous Seihon, attuale coinquilino, attore e amico del regista, quando l’automobile che conteneva tutte le attrezzature del set è sparita. Nel tentativo di recuperare la macchina, Jonas è entrato in contatto con la comunità rom di Gioia Tauro per la prima volta, in un incontro che ha segnato l’inizio di un rapporto simbiotico tra Jonas e Pio.

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“A Ciambra” è girato a spalla, in 16 millimetri, perché il regista non ama il formato digitale. Ha richiesto 91 giorni di set, spesso improvvisato e spontaneo. Anni di prove “non ufficiali”, come le chiama il regista: sedute di racconti a pranzo e a cena di fatti accaduti, visioni del mondo, ricordi, memorie, prospettive, valori e sogni dei componenti della famiglia di Pio. Tre mesi di riprese e molti di più per convincere gli Amato a recitare se stessi, mettendo in scena, senza filtri, i furti di rame e di automobili, le discussioni in famiglia, i fragili rapporti con la ‘ndrangheta locale (che si vede poco, ma si sente), l’amore che arriva presto e a pagamento, la prigione, le sigarette a tre anni, la musica a palla, il senso delle radici e dell’unità della famiglia al di sopra di tutto.

Volevo rappresentare il senso di appartenenza alle radici che i rom hanno, nonostante siano nomadi per definizione” – ha detto Jonas Carpignano alla prima romana di “A Ciambra” nell’arena estiva di Nanni Moretti – “E volevo mostrare quello che fanno senza censure, perché si può voler bene a qualcuno anche se ruba o se è diverso da noi, lo si accetta e lo si ama lo stesso”.

E così è andata per Jonas e per il giovane Pio, oggi quindicenne con fidanzata e macchina al seguito, che per anni ha letteralmente seguito il regista per le vie di Gioia Tauro, incuriosito dal suo lavoro e dalla sua diversità. Quella stessa diversità che, nel film di Jonas, avvicina e rende amici Pio e Ayiva (Koudous Seihon), un migrante del Burkina Faso che lavora a Rosarno, e che smentisce (forse) la diffidenza che i rom provano verso tutti gli altri, in particolare verso gli africani. Pio, i suoi fratelli, Ayiya, le prostitute straniere e tutta l’enorme comunità di “diversi” che popola la Piana di Gioia Tauro si muovono in uno spazio liminale, a cavallo tra l’ufficiale e il non ufficiale. Chi in cerca di un riconoscimento, chi di un salario, chi di placare la nostalgia di casa, occupando un posto invisibile ma tangibile nella società, come la ‘ndrangheta, che secondo il nonno di Pio ha reso i rom meno liberi di quello che erano in passato, rinforzando il principio del “noi contro tutti”.

Da molti definito il Bronx di Gioia Tauro, “A Ciambra” è un racconto, una fotografia che passa attraverso gli occhi di Pio – e spesso sembra scappargli via dagli occhi – tracciata con gli strumenti della finzione e del documentario e condita con momenti di lirismo registico da copione e momenti di spontanea analisi antropologica, come i risvegli di Pio, i racconti della mamma Iolanda, le nostalgie del nonno anziano. Materiale su cui anche De Seta avrebbe messo gli occhi e su cui alcuni dei più celebri antropologi calabresi come Luigi Lombardi Satriani e Vito Teti si interrogano e scrivono da decenni: l’alterità, la trasmissione della cultura, il sacro, il rito, il sangue, l’onore, la terra, il dialetto come pratica resistenziale, le macerie della Calabria, la modernità incompiuta, la decrescita, l’assenza, la desertificazione, la resilienza. Un ritratto di comunità, che spalanca le porte a tanti altri ritratti che si sommano e si accumulano in quelle terre e ogni tanto finiscono tristemente sulle pagine dei giornali: lo scioglimento del Comune per infiltrazione mafiosa, i maxi arresti delle ‘ndrine gioiesi, le ottocento tonnellate di armi chimiche di Assad smaltite nel porto di Gioia Tauro nel 2014, i tumori, le proteste dei braccianti, le alluvioni stagionali, il ritratto di un’ennesima “terra dei fuochi” meridionale.

Jonas Carpignano sul set
Jonas Carpignano sul set

Accolto da dieci minuti di applausi a Cannes, durante la prima nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, “A Ciambra” vanta una troupe e un cast tecnico internazionale e di grande pregio, tra cui Alfonso Gonçalves, lo storico montatore di Jim Jarmusch, e Martin Scorsese come produttore esecutivo, il quale, non solo ha contribuito economicamente con il suo fondo per i giovani registi, ma ha incontrato Jonas durante il montaggio per consigliarlo su come procedere nella fase finale del film. Ispirato ai grandi film di formazione americani di Martin Scorsese e di mafia italiani come “Gomorra” di Matteo Garrone, “A Ciambra” è molto lontano dai classici set dei gangster movies: tanto per cominciare, è un film che parla il dialetto calabrese – che il regista ha imparato durante gli anni di permanenza in città- , è il risultato di un’acuta e paziente scrittura del regista sulla base dei racconti degli Amato e soprattutto è figlio di un lavoro di set impegnativo, fatto di prove e di ripetizioni continue, visto che la famiglia Amato per lo più non sa leggere. Una vera e propria dedica alla città, ai suoi abitanti, il frutto di una missione civile e di una militanza artistica che agiscono attraverso il cinema del reale.

Jonas Carpignano, che da New York – dov’è nato da un padre italiano e da una madre afro-americana – si è trasferito in Italia a fare il suo mestiere, si dice debitore nei confronti del cinema di Matteo Garrone (“Il Racconto dei Racconti”, “Gomorra”, “Reality”), della regista inglese Andrea Arnold (“Red Road”, “American Honey”) e di Alice Rohrwacher, la regista di “Le meraviglie” (2014) e di “Corpo Celeste” (2011), un altro film ambientato nell’area di Reggio Calabria. Così, dopo Wim Wenders che nel 2009 ha portato le telecamere a Badolato (CZ) e a Riace (RC) per realizzare il suo piccolo capolavoro sull’integrazione “Il volo”, il cinema è tornato in Calabria negli ultimi anni, prima con “Corpo Celeste” e la sua parrocchia di provincia ossessiva e senza crocefisso, poi con la commedia “Qualunquemente” di Giulio Manfredonia in cui Antonio Albanese veste i panni di un indimenticabile e deprecabile imprenditore corrotto e, infine, con il pluripremiato “Anime Nere” di Francesco Munzi, girato tra Africo, Bianco e Locri e “Il Padre d’Italia” di Fabio Mollo, con gli straordinari Isabella Ragonese e Luca Marinelli e il porto di Gioia a fargli da sfondo.

“A Ciambra” (dal 31 agosto nei cinema italiani) è, per ora, l’ultimo tassello di una narrazione collettiva, che sta portando la Calabria e i suoi abitanti al centro delle attenzioni di artisti e studiosi della cultura, con un rinnovato interesse per l’“India di quaggiù”, che si spera col tempo diventi un’officina stabile di idee e di nuove significazioni.

Viola Brancatella
Viola Brancatella

Cresciuta a viaggi in macchina e Lucio Dalla, antropologa per convinzione, fotografa occasionale, osservo tutto bulimicamente e scrivo per esorcizzare. Può andare?

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