di Andrea Mammone
Sarà stato leggere di presidenti che giocavano a premere i pulsanti di testate nucleari, di Corea e d’infiltrazioni russe in Occidente, ma, in quei giorni, i miei pensieri erano volati al passato. Ero arrivato a Saigon a settembre del 1986. Era l’anniversario della liberazione. Il Vietnam era diventato una repubblica comunista – e tale era rimasto, anche se oggi il capitalismo di stato a volte sfrutta i lavoratori più che nel mondo “libero”. In quei giorni, invece, nessuno pensava che la Guerra Fredda sarebbe mai finita. C’erano i buoni, tutti da un lato, e i cattivi, rigorosamente da quello opposto. La famosa “Caduta di Saigon” nel 1976 aveva portato ad un cambiamento nel corso della guerra. Nei conflitti succedeva in pratica come nella canzone “The winner takes all” degli Abba: il vincitore prendeva tutto. Da quel momento in poi la città avrebbe ufficialmente preso il nome di Ho Chi Min City. Però, nessuno la chiamava in quel modo quasi osceno.
Il Boston Globe mi aveva mandato a fare un servizio fotografico e scrivere una serie di storie per il loro inserto fine settimanale. La cosa che alcuni dimenticavano era infatti che una guerra si combatteva davvero tra le due superpotenze. A volte succedeva in lembi di terra dei quali non fregava un cazzo a nessuno: né agli operai di Jersey City, né a quelli di Leningrado. Si combatteva, tuttavia, anche senza armi reali. Prima di giungere in Asia avevo passato del tempo a Milano. Alcuni, nel resto del globo occidentale, erano interessati a capire il fenomeno della città borghese e proletaria, con i tanti italiani del sud che per adattarsi iniziavano a parlare con un accento che li rendeva ridicoli e invidiati nei piccoli paesini d’origine. Il capoluogo lombardo diventava una metropoli “da bere” (come, appunto, recitava la pubblicità di un famoso amaro), nella quale socialisti diversi da quelli vietnamiti sorseggiavano spumante e facevano aperitivi, coltivando quel mito del successo economico che, tempo dopo, avrebbe generato un politico imprenditore pronto a rovinare l’Italia intera. Questo mi fece quasi odiare Milano per anni – fino a quando non ritrovai amici visitandola dopo che un sindaco di sinistra aveva rispolverato un arredamento elegante e un po’ di cultura aveva iniziato a risplendere tra le nebbie dell’ignoranza. Quel misto di Europa, immigrazione e stile, mi aveva fatto sorridere al profondo nord. La penisola era comunque utile per capire il contesto politico globale con i comunisti che, nonostante i milioni di voti ricevuti, non potevano governare. Era un’altra faccia della contrapposizione su scala mondiale tra i blocchi opposti.
Naturalmente Saigon era molto peggio. Alloggiavo all’Hotel Rex. Era il posto dove, anni prima, il comando americano fantasticava sul corso della guerra nella conferenza stampa giornaliera (veri e propri momenti esilaranti che i corrispondenti dell’epoca chiamavano “la follia delle cinque”). Le bugie, o post-verità, non sono, infatti, un’invenzione di un paio d’informatici russi o di quel miliardario biondo americano che gioca a fare l’outsider. In realtà io, tra le cinque e le sei, stavo comodamente seduto sui divanetti o ai tavolini all’aperto di un hotel di epoca coloniale francese chiamato Majestic. Bevevo thè verde con Elle e Enne. La prima aveva una bellezza nascosta negli occhi e bastava guardarla fissa per sei secondi per farle cambiare colore. Erano i sei secondi che servivano per capire quanto era complessa, fragile e indipendente. Aveva lasciato un lavoro in finanza per insegnare inglese ai bambini poveri di Saigon. Enne, invece, era un attore che sperava di girare un film documentario con in mezzo una storia d’amore. Era un tipo simpatico e scriveva sceneggiature sulle cose meno probabili. Venivamo tutti dalla California del sud. E si vedeva.
Al Majestic c’era spesso uno che cantava “I wish I was in New Orleans”. Aveva l’espressione di quei ragazzi che, senza sapere quello per cui stavano combattendo, guardavano spaesati le paludi vietnamite sognando il ritorno a casa, mentre i loro fratelli e le loro sorelle dimostravano nei campus universitari americani, chiedendo la fine di imperialismo e conflitti. Questi ultimi sarebbero ripresi con forza grazie ad un altro strano cowboy che vagheggiava sull’esportazione della democrazia, sull’Afghanistan e sull’occupazione di quell’Iraq che anni prima aveva fatto innervosire suo padre. Il Majestic permetteva di transitare tra queste porte girevoli del tempo. A volte passavano Maximilian, uno che leggeva molti libri impegnati e sapeva mettere musica alla vita, e Rosie, un’ex ballerina che viaggiava sugli anelli di saturno. Non ho mai capito che lavoro facessero, né perché vivessero in Vietnam. La loro presenza, tuttavia, metteva allegria e il thè verde si beveva meglio mentre lui, in abito elegante, suonava un pianoforte accompagnato dalla voce della cantante francese di turno. A intermittenza perὸ qualcuno di noi si domandava come fosse possibile che in occidente molti avessero rimosso il ricordo della guerra. Eppure, già di per sé, più i conflitti sono lontani più appaiono come una puntata di Star Wars.
Noi, invece, avevamo le rovine e la povertà a ricordarci il passato. Intanto Al Green cantava mentre ero perso nei miei pensieri. Sento una mano scuotermi dolcemente il braccio.
“Ma in che epoca pensi di trovarti?” dice Elle.
Enne mi guardava con un accenno di risata.
“A volte sembra che ti trovi su una navicella spaziale”, continua Elle.
Guardo il cellulare, scatto sul letto in posizione semieretta. Sono in ritardo e Alice mi aspetta nella hall dell’albergo. Forse a causa del fuso orario ho dormito (e sognato) troppo.
Mosca è più moderna di come l’aspettassi – pensavo fosse grigia come in un vecchio film sull’Europa dell’Est. È l’anniversario della rivoluzione che portò i comunisti al potere. Eppure, il governo non ha previsto nulla di particolare essendo impegnato in una restaurazione dello zarismo per legittimare il leader. I dissidenti che incontro parlano di regime. Andiamo in aeroporto per prendere un volo per Londra e in radio suonano i The Charlatans. I ciarlatani in effetti: concetto più che appropriato ai tempi recenti. Nella capitale britannica troverò qualcuno che parla di Brexit come di ritorno all’impero. Siamo tornati, per alcuni versi, all’ottocento. Qualche volta la realtà è più paradossale dei sogni.