Le lettere, in tutto, sono quasi cento.
La prima è quella di Giuseppe per Ferruccio, spedita da Roma e in autunno. Giuseppe che parte per un’America di cui non sa niente se non che è ordinata, piena di biblioteche, lontana dalla noia e da suo figlio, da Lucrezia e dai giorni vecchi che hanno passato insieme, dalla stanza ventitre di un albergo di Viterbo.
L’ultima è di Lucrezia per Giuseppe. È marzo e sono passati degli anni. Lucrezia e i figli avuti da Piero, la loro casa a Monte Fermo, ogni tanto il pianto e gli slanci di disprezzo per ciò che la circonda, gli amori che la consumano piano mentre cerca protezione. E Piero, intanto, lavora e si rassegna.
Nel mezzo, le esistenze di Alberico, Albina, Ferruccio, Serena, Egisto, Ignazio Fegiz, Roberta: qualche nascita e qualche morte, i corpi che si appesantiscono e si sciupano, partenze e ritorni.
Ma qual è davvero il posto che si è lasciato?
Quale quello in cui si è arrivati un giorno e quale quello a cui si torna?
E ci sono, sui fogli di carta che Natalia Ginzburg immagina nelle caselle postali, le stesse parole e le stesse frasi che si ripetono e si richiamano a vicenda: è il romanzo dei giorni scritti che invece hanno il suono delle voci, e le voci diventano una sola. Si sovrappongono i dolori e le speranze, le miserie casalinghe e le gioie minuscole.
Tra la città, con le sue strade e i suoi angoli familiari o stranieri, e la casa, con le sue stanze piccole e grandi e gli oggetti che abbiamo scelto per riempirle e riconoscerle nostre, non c’è che la vita e tutto quello che di lei sappiamo e non sappiamo.
Dentro e fuori: “La vita dei nostri giorni” che si riflette “come nelle schegge d’uno specchio rotto”; schegge che dobbiamo maneggiare con cura per non ferirci, per non avere paura di un’immagine frammentata e incompleta.