di Carmine Ritacca*
Christine ha gli occhi grigi come nuvole di temporale. Sembrano specchiare l’eco di un tumulto di voci, voci che parlano di un viaggio attraverso l’inferno. Sono le cosiddette migrazioni irregolari attraverso il Mediterraneo – spesso accolte con discriminazione e pregiudizio dall’Europa – il traffico di esseri umani sfruttati dalla criminalità organizzata, anni di giovinezza persi che raccontano delle manifestazioni più viscide della violenza razzista nelle sfere della nostra quotidianità.
Quella di Christine è solo una delle tante storie di vittime di sfruttamento, storie che arrivano in Italia, ma il cui destino appare spesso segnato fin dal paese d’origine. Da qualche mese è beneficiaria del progetto S.p.ra.r. (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per adulti, gestito dal Centro di solidarietà “Il Delfino”. Io qui lavoro come operatore legale, siamo nel piccolo comune di Domanico, alle porte di Cosenza, in Calabria.
Dal primo incontro mi colpisce la sua bellezza discreta e il suo sguardo luminoso, carico di dignità, solo un po’ indurito. Fin da subito comprendo quanto sia difficile per lei parlare, narrare l’indicibile: sembra voglia rivendicare il suo diritto all’opacità su ciò che ha vissuto veramente. È la manifestazione del suo diritto al non voler essere compresa e che resiste alla volontà di meglio “conoscere” la verità.
Mi sono sempre chiesto quale debba essere lo sguardo di chi opera nel campo dell’accoglienza e quale sia il suo ruolo rispetto alla violenza subìta nel corso del viaggio verso l’Europa da questi esseri umani. Domande che tirano in ballo la mia posizione di apparente potere e privilegio: dal fatto di essere un occidentale, un cittadino italiano, alla mia condizione esistenziale e alla mia classe sociale. Cerco di offrirle degli spazi di ascolto in cui esprimersi e parlare con la propria voce, raccontando la propria esperienza. Darle visibilità rispettando i suoi silenzi, il suo senso del pudore, la sua dignità. Questo è il mio tentativo.
Capisco bene che mentre la intervisto, Christine ricostruisce la memoria di ciò che ha vissuto, di quello che per lei è stato. Mettere insieme i ricordi e ricostruirli vuol dire rivivere momenti tragici. La sua storia è la cronaca di qualcosa che non ho mai conosciuto e ascoltato, ma soltanto letto nei rapporti ufficiali stilati dall’Unhcr e dall’Oim che analizzano il fenomeno della tratta di esseri umani sulla rotta del Mediterraneo. Sentirli dalla sua voce e rivederli nei suoi occhi è tutta un’altra cosa.
Christine ha appena compiuto trent’anni e viene da Yamoussoukro, in Costa D’Avorio. Come migliaia di ragazze, è caduta ingenuamente nella rete dei trafficanti che, promettendole di trovare un lavoro dignitoso in Europa, si sono appropriati della sua stessa vita.
“In verità la mia vita è stata segnata fin da bambina- racconta con occhi lucidi -. Mio padre morì prima che io nascessi e trascorsi l’adolescenza a prendermi cura di mia madre gravemente malata”.
Nonostante le mille difficoltà, però, non abbandonò mai gli studi: “Volevo iscrivermi all’università e diventare medico – continua -, ma un giorno un uomo ricco e anziano mi ha costretto a sposarlo. Altrimenti era il massacro. Non avevo scelta e nessun familiare ad aiutarmi”. Da quel momento Christine ha perso ogni diritto e la sua vita è diventata una costellazione di abusi e violenze.
“Mi picchiava continuamente, – dice – e non c’è stato un giorno in cui non subissi punizioni di ogni tipo. Convivevo con le altre due mogli e condividevo con loro soltanto macabri sentimenti di terrore. Un giorno provai a scappare ma riuscì a trovarmi. Fu così che mi rassegnai pensando che Dio avesse scelto questa vita per me”.
Il suo racconto è intervallato spesso da silenzi e mi rendo conto che dai suoi occhi traspare una realtà di dignità umiliata, di desideri inespressi e speranze disattese. Interpreto i suoi silenzi come una forma possente di resistenza nei confronti di un’immagine vittimizzante di sé. Non è soltanto la sua storia personale: l’atto di ricordare e di raccontare assume un profondo significato sociale. La vita di Christine, però, cambia radicalmente quando nel 2011 la Costa D’Avorio piomba nella guerra civile che, successivamente, ha devastato il Paese:
“Mio marito scappò – racconta – e non seppi più nulla di lui. Un giorno, le sue due mogli mi presentarono una signora. Mi disse che l’organizzazione per cui lavorava mi avrebbe portato in Europa e che mi avrebbe dato un’occasione. Ma non mi disse mai cosa voleva in cambio”.
Iniziò a viaggiare per giorni interi a bordo di un pick-up insieme con altre persone. Alcune di loro morirono durante il tragitto nel deserto, altre furono lasciate morire di fame. “Non preoccuparti – mi dicevano -, tu andrai in Europa. Ma non potevo immaginare. Ho capito tutto quando siamo arrivati in Burkina Faso e ho visto tante compagne di viaggio piangere”.
La cronaca della violenza, nuda e oscena, inizia in Libia. Ed è una violenza senza sconti: “La signora mi chiese cosa volessi fare per pagarle il viaggio, se la badante o la prostituta. Ma, in realtà, non c’era distinzione”. L’illusione della nuova vita in Europa dura lo spazio dei pochi minuti necessari per sistemare i bagagli nella sua nuova casa: “Ho vissuto in una stanza per cinque anni interi – mi confessa – senza avere nemmeno il tempo di piangere. Passavano sopra di me anche venti uomini al giorno”. Seguo la sua storia con attenzione, ma non riesco a farle più domande. In mio soccorso, giunge il suo racconto puntuale e ordinato: “Dividevo l’appartamento con un signore che mi picchiava se non obbedivo e se non portavo i vestiti adatti. Ogni mese la mia maman si presentava per riscuotere il dovuto, soldi che non ho mai visto e non potrei quantificare, e poi spariva. Per cinque anni interi questa è stata la mia vita. Non sono mai uscita di casa. Poi, un giorno, si presentò dicendomi che ero libera, che il “contratto” era finito, ero vecchia e adesso potevo raggiungere le coste libiche dove sarei approdata in Europa. Il mare fu la mia salvezza”.
Decido di non approfondire sulla permanenza in Libia perché la sua voce tremolante mi restituisce il suo senso di profonda vergogna e umiliazione provati per cinque lunghi anni. La nuova vita di Christine inizia in Sila nel 2016. Uno psicologo si prende cura di lei e pian piano inizia a ritrovare nuova linfa vitale. La sua domanda di protezione internazionale è stata accolta dalla Commissione territoriale di Reggio Calabria e ora è inserita in uno dei progetti Sprar gestiti della Cooperativa “Il Delfino” nella provincia di Cosenza. Non ha abbandonato il suo desiderio originario di diventare medico. A settembre continuerà a frequentare il Cpia di Cosenza e seguirà i percorsi di istruzione superiore per adulti. Non ha nessuna intenzione di ritornare in Costa D’Avorio: “Lì, ormai, non ho più nessuno, nemmeno mia madre. Sono grande lo so – mi sorride – ma ora mi aspetta questa nuova avventura e mi sento pronta”. Spengo il registratore, l’incontro è finito. Lei mi sorride con gli occhi vivaci: “Voi siete tutto quello che ho”.
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*Operatore legale Sprar ordinario “La Terra di Mezzo” Domanico.