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Vite violentate: la tragica fine di Julia di Tarsia

admin
Ottobre13/ 2012

Una bambina di soli dieci anni violentata a morte dallo zio. E’ il destino di Julia di Tarsia, figlia del barone di Belmonte calabro e poeta Galeazzo (1520 – 1553) e di Camilla Carafa. Bramosia di beni materiali, libido e fortissime pulsioni insanguinano una periferia tirrenica cinquecentesca. Parlano i documenti: alcuni veri, altri “presunti”, altri ancora citati e mai visti.

 

Il primo giorno di giugno del 1553 i parenti di Galeazzo di Tarsia, riunitisi in occasione dell’apertura del suo testamento, cominciano ad avanzare ipotesi sulla tragica morte del loro congiunto avvenuta nei giorni precedenti. I risultati di quelle ricerche emergono solo sei anni dopo. E’ la parte femminile della famiglia (le sorelle Diana, Lucrezia e Livia) a chiedere giustizia dinanzi al notaio Angelo Desideri, dando «speciali mandato» al procuratore «Joanem Monaco» di Cosenza ma residente a Napoli, di procedere in magna curia, sacro regio consiglio e dinanzi a qualsiasi altro giudice e tribunale per «homicidio commisso in persona dicti quondam magnifici galeatii» (28, 17, 500 r. e v.). Si cercano gli assassini, indicati nelle persone di «Joannem Baptistam de alagni et Joannem antonium de alagni» ma anche altri complici o fautori.

Venuta meno la protezione del padre, un vero e proprio ciclone di violenza si abbatte su Julia: solo ed esclusivamente perché tra i due testamenti redatti da Galeazzo tra il 1551 (esilio eoliano) e il 1552 (prima della partenza per Siena) emergono delle modifiche sostanziali che tagliano fuori il fratello Tiberio dal ruolo di erede universale. Solo un’improbabile morte della piccola Julia gli porterà le ricchezze necessarie al pagamento di tutti quei creditori, «novi cerberi ingordi e novi mostri» come lui stesso li definisce in un sonetto, che lo circondano. Non ha più nulla da perdere e ciò lo spinge ad escogitare tra la fine del 1553 e l’inizio del 1554 un brutale complotto: per evitare un futuro matrimonio della nipote, contrattato dai parenti della defunta madre, il cinico Tiberio pensa egli stesso di sposare la bimba. Prelevata dal monastero delle Vergini di Cosenza con la complicità di tutti i parenti, Julia viene condotta in casa della zia Livia per la pianificazione di un matrimonio contratto «al solo aspetto legale» e la consumazione di un rapporto sessuale violento a causa del quale «dopo poco se ne muore».

Nella maggior parte dei casi le molestie sessuali o la deflorazione subite potevano pregiudicare il futuro delle piccole vittime, anche se non rimanevano menomate nelle loro facoltà riproduttive, ledendone irreparabilmente la reputazione e rendendole più esposte a violenze successive. Julia è una di quelle vittime predestinate che vuoi per la giovane età e la debolezza fisica, vuoi per una volontà facile da coartare o per l’ignoranza in materia sessuale, costituivano una «caccia privilegiata» per i delinquenti sessuali. Ma oltre alla depravazione e alla libido, che spingono Tiberio a commettere una violenza nei confronti di una ragazzina in età pre – puberale e pertanto classificabile nella terminologia dell’epoca come “atrox”, vanno annoverate motivazioni di natura economica. Lo scopo di Tiberio è quello di segnare per sempre il futuro della nipote e comprometterne definitivamente le future possibilità di matrimonio.

Consumato il delitto, Tiberio si reca a Napoli per far valere il proprio diritto alla successione nel feudo di Belmonte che gli viene prima riconosciuta, poi “congelata” a causa di una contestazione del fisco probabilmente alimentata dai parenti materni della piccola vittima che lo accusano di stupro. Proditoriamente riesce a produrre un atto che lo scagiona: una dichiarazione resa spontaneamente da alcune donne che considerano l’intenzione di Tiberio di sposare la nipote, una finzione architettata al solo fine di sottrarla alle cure dei parenti materni. Il matrimonio tra zio e nipote non si è mai consumato, nemmeno lo stupro, Tiberio è così reintegrato nel possesso feudale: questa la verità sancita dalla legge. Il Bartelli e più recentemente il De Frede e il Turchi concordano sull’accaduto e sull’esistenza dell’atto – farsa: un documento rogato dal Notaio Napoli di Macchia che ad oggi rimane sepolto, insieme a parte della verità, nell’impolverato archivio cosentino.

Matteo Dalena

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