Alla squallida camera mortuaria si accede dalla porta di fianco l’Ospedale. Un pezzo di legno fradicio e scricchiolante segna il confine tra la morte e la vita, deforma le preghiere condendole di lacrime e rimorso. Il travaso della speranza nel contenitore della disperazione si è completato nel volgere di un’ora, la sua ultima. Paolo Cappello, muratore socialista della Massa, è morto. Penetrato nel petto da piombo fascista. Secondo testimoni in una lunga storia giudiziaria finita con l’amnistia, sarebbe stato un colpo in particolare, quello eruttato dalla rivoltella del centurione fascista Antonio Zupi, a spingersi fino a perforargli il polmone sinistro. Un colpo bastato a demolire un ragazzo dalla buona costituzione fisica, cresciuto nella polvere della Massa e tra i tuguri della Cosenza cadente.
Una settimana. Tanto è il tempo trascorso dal ferimento alla morte, ricoverato nell’unica corsia dell’ospedale bruzio e piantonato da guardie di pubblica sicurezza dalla sera del 14 fino al primo mattino del 21 settembre, anno 1924, il secondo dell’era fascista. Nelle prime ore della domenica, tradendo la speranza di un miglioramento registrato dai medici già dal martedì – appariva più sollevato e meno affaticato dalla deficiente e penosa respirazione – dopo aver riposato per qualche ora, Paolo si sveglia di soprassalto avvertendo un certo dolore al fianco sinistro. Chiede dell’acqua Paolo e ne beve molta. Avverte ancora una gran sete e così, poco più tardi, chiede una granita di caffè ma dopo averne sorbito soltanto alcuni cucchiaini, trova solo la forza di affidare ai più prossimi tra i suoi queste parole: “Dopo morto mettetemi un garofano rosso all’occhiello”. Poi ripiegatosi sul fianco sinistro, si spegne. Sono le sette e mezza.
LA NOTIZIA | proibire ogni corteo
Nel resoconto dei giornali di partito la notizia, rapida e senza sconti, viaggia assieme alle carrozzelle tirate dai cavalli ferrati che da piazza Ferrovia raggiungono il Tribunale, inerpicandosi per quella salita che conduce alla giustizia o, molto più spesso, solo al camposanto. E ridiscende copiosa di parole gravide di congetture, dubbi e ricordi, portata da una folla immensa che, nutrendosi di rancore e rabbia, assedia i giardini del pio luogo. È giorno di riposo e gli operai, giunti a gruppi compatti da Massa e Spirito Santo, Borgo, Casali, Rivocati, dalle fabbriche di mattoni e tannino e dalle tipografie, si assiepano in attesa dell’apertura della celletta obitoriale con il proposito di guardare la loro cara salma fino a che non saranno disposti i funerali. Poco dopo le otto la folla è immensa, ci vorrebbero tre piazze per contenerla. Il verde dei giardini è oscurato da un’unica informe macchia che nelle tonalità del marrone è rotta soltanto dal nero delle divise di un plotone di guardie di pubblica sicurezza recanti un ordine preciso: Sgomberare! Volano pugni e improperi ma l’arrivo dei dirigenti socialisti porta la calma nel grande giardino dell’ospedale. La massa indietreggia. L’avvocato Pietro Mancini tiene stretta per un braccio Carmela D’Acri, la vedova Cappello, comunicandole con voce ferma ma al contempo consolatoria la volontà dei compagni di celebrare i funerali nella forma più solenne e nel contegno in modo che abbiano un carattere di solenne protesta al barbaro delitto. Le ore passano e la folla cresce perché in città ogni attività è sospesa. Verso mezzogiorno vetturini e chaffeurs si ritirano per protesta dalla circolazione dirigendosi nei pressi dell’ospedale. Un urlo di rabbia, quasi all’unisono fa da sfondo alla pubblica voce che la questura, intimorita dalla mole di quel gigantesco muro mano, intende proibire i funerali. Impossibile solo pensarlo: di fronte alla volontà della massa dovettero cedere, cosicché, sia pure accompagnandola di numerose e stupide limitazioni, furono costrette a dare l’autorizzazione per il corteo funebre.
I FUNERALI | il bagno di folla
La gente da ogni angolo della città si riversa in piazza Ferrovia pronta a seguire il cadavere in qualunque modo trasportato. Intorno all’una i dirigenti del partito vengono avvertiti dalla questura di poter disporre i funerali nel pomeriggio, non oltre le cinque. C’è pochissimo tempo, bisogna onorare nel migliore dei modi il compagno caduto e, al contempo, evitare che il bagno di folla si trasformi in uno di sangue. Le parole sono pietre, come quelle che la città gonfia di rabbia minaccia di scagliare in faccia ai questurini e ai fascisti dai palazzi del centro al primo segno o manifestazione di violenza. Il nome del presunto colpevole del preordinato assassinio, Antonio Zupi, rimbalza di bocca in bocca, ma altre voci hanno, almeno ora, priorità. Ognuno suggelli nel cuore che spera il rimpianto per la vittima, recita un avviso della commissione esecutiva della Camera del Lavoro, stampato a tempo di record ma mutilato e censurato assieme a un manifesto della locale sezione socialista. Nessuno scritto contenente una parola in più della semplice notizia della morte di Paolo Cappello può essere affisso, rigorosamente proibiti in ogni momento del corteo i fiori, i nastri rossi. Nessun tipo discorso. Alle quattro lo spettacolo che offre piazza Ferrovia è davvero imponente: diecimila persone aspettano l’uscita della salma dalla camera mortuaria dell’ospedale dove la moglie, la madre adottiva, le sorelle e cognate di Paolo Cappello non sanno allontanarsi dal loro caro che coprono di baci e di fiori. Portata a braccia da sei compagni socialisti, non appena la bara è fuori dall’ospedale un silenzio profondo s’impadronisce della piazza. Le sezioni socialiste sono presenti al gran completo con rappresentanze giunte dagli angoli più remoti della provincia.
Aderiscono in massa i comunisti dalle sezioni di Castrovillari, Spezzano Grande, Casole Bruzio e soprattutto Pedace, microcosmo presilano dove Paolo Cappello venne al mondo nel 1890 da ignoti. Tutti gli sguardi sono rivolti verso la bara, parecchi piangono a dirotto e le donne mandando dei baci si segnano con quella religiosità che hanno di fronte ad una reliquia, c’è chi si inginocchia e chi prega sommessamente. I balconi e le finestre sono gremiti. C’è gente ovunque che segue il prosieguo di un enorme corteo fiancheggiato dai carabinieri, mentre tutti gli sbocchi delle strade sono chiusi dalla truppa. Il breve percorso imposto dal questore non ammette deviazioni: dall’ospedale fino in piazza dei Tribunali, attraverso piazza Ferrovia, ponte Alarico, corso Plebiscito e salita Tribunali. Tutti procedono a testa bassa e scoperta. Centinaia di carrozzelle accompagnano il corteo quasi fino alla fine.
Nei pressi del Palazzo di Giustizia qualcosa va oltre il “pattuito”: il comunista Fortunato La Camera, detto “Natino”, sostenuto da alcuni operai protesta vibratamente contro il divieto di discorsi nella pubblica piazza. Il questore risponde dando ordine alla forza pubblica di sciogliere violentemente il corteo. Sono attimi di tensione, con cariche leggere sospese tuttavia nel momento in cui la bara, posta sul carro funebre tra la viva commozione degli astanti, s’avvia al camposanto.
Mi dica un po’ perché alla protesta da me fatta contro il veto del Questore, in nome dei miei compagni e della maggioranza degli operai, che tutti volevano che si parlasse, non si sono associati i massimalisti? Perché mai, essi hanno invece fiancheggiato l’opera del Questore, facendo così da veri agenti di forza pubblica, contro il sottoscritto e i suoi compagni?
Così, nei giorni successivi, veementi si alzeranno dalle colonne de L’Operaio le proteste dello stesso La Camera a proposito del resoconto dei funerali di Paolo Cappello fatto dall’Avanti!, preludio all’incandescente clima dei mesi successivi con un processo in istruttoria e i tentativi da parte delle gerarchie fasciste locali di far di tutto pur di salvare i colpevoli.
(1.continua)
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Per approfondire:
La Parola Socialista (1924-1925)
L’Operaio (1924-1925)
La Calabria fascista (1924-1925)
Avanti (1924-1925)
Cronaca di Calabria (1924-1925)
Archivio di Stato di Cosenza, Processi Penali (1910-1924)
Biblioteca Fondazione Lelio e Lisli Basso
Casellario Politico Centrale, buste varie.